Torna il Festival Internazionale del Cinema del Cairo

09/02/2015
cairo

Il Festival Internazionale del Cinema del Cairo, una delle più importanti manifestazioni culturali in Egitto e nella regione, è tornato nella capitale quest’anno dopo una doppia sospensione nel 2011 e nel 2013. L’edizione che si era svolta in sordina nel 2012 era stata caratterizzata da proteste contro il governo dei Fratelli Musulmani. Il Ministero della Cultura ha affidato l’organizzazione dell’evento a Samir Farid, Mohamed Samir e Joseph Fahim, una squadra proveniente dalla realtà indipendente, ma anche legata all’industria cinematografica commerciale (Mohamed Samir ha prodotto l’ultimo film di Mohamed Khan “Factory girl”) che si è trovata a collaborare per la prima volta con le istituzioni statali riuscendo a gestire, talvolta a fatica, l’accoglienza di un pubblico inaspettatamente numeroso, superando le tiepide aspettative e contraddicendo la bocciatura preventiva della stampa locale.

Di particolare interesse in questo Festival sono stati i film di registi arabi e africani, soprattutto per l’originalità dei temi trattati e la varietà dei generi narrativi. “Timbuktu” (Mauritania, 2014) di Abdelrahman Sissako è la toccante storia di una famiglia e degli abitanti dell’antica città del Mali la cui vita viene stravolta dall’occupazione da parte degli estremisti islamici. Episodi comici e surreali che raccontano la resistenza quotidiana di uomini e donne alla repressione insensata contrastano con scene estremamente drammatiche di violenza scarne ed essenziali, seppur prive di sentimentalismo.

Vincitore del premio per la miglior regia nella sezione Orizzonti a Venezia, “Theeb” (Il lupo) è l’appassionante storia di formazione di un ragazzo beduino nella valle di Wadi Rum, in Giordania durante la prima guerra mondiale. Il film, applaudito a Toronto e Abu Dhabi, ha riscosso un grande successo anche al Cairo.

Indimenticabile la proiezione dell’opera del regista siriano Ossama Mohamed e della regista curda Wiam Simav Bedirxan “Silvered water. Syria’s self portrait”. Presentato come documentario, questo diario di guerra girato tra la Siria (Homs in particolare) e l’Europa, offre una rara e preziosa testimonianza del conflitto e delle sue devastanti conseguenze sulla popolazione. “Silvered water” è un’opera di alto valore poetico ed estetico che offre un’importante riflessione sulla fragilità della condizione umana e sulla realtà della guerra senza mai indulgere nella drammatizzazione, nonostante il suo brutale realismo.

Tre i film egiziani in concorso per la selezione ufficiale, firmati da registi emergenti e non. In “El Ott” (il gatto) il pioniere del cinema indipendente Ibrahim El Battout racconta una torbida storia di crimine e vendetta ambientata nei quartieri poveri della metropoli affrontando il tema del traffico di organi e dell’anarchia urbana.

Gate of departure”, premio Piramide d’Argento per la poetica cinematografia di Zaki Aref, è l’enigmatico viaggio onirico del regista debuttante Kareem Hanafy che attraverso una narrazione simbolica ed astratta evoca il ciclo di vita, morte e rinascita ed il legame spesso soffocante tra generazioni diverse optando per un approccio introspettivo e una minuziosa cura dell’estetica senza però sfruttare le potenzialità della sceneggiatura.

Girato interamente in bianco e nero, con la raffinata fotografia di Tarek Hefny, “Decòr” di Ahmed Abdallah racconta la doppia vita di Maha che lavora come costumista in una produzione televisiva e si ritrova misteriosamente nei panni di un’insegnante elementare sposata con una figlia. Abdallah sposta abilmente l’azione da uno scenario all’altro, riuscendo ad armonizzare i molteplici piani della narrazione.

Le storie e i modelli narrativi dei film egiziani in concorso appaiono lontani dai “temi caldi” e dai clichè del cinema arabo d’esportazione (come nei precedenti film di Ahmed Abdallah e di Ibrahim El Battout “Rags and Tatters” e “Winter of Discontent” entrambi ispirati alla rivoluzione del 25 Gennaio) a dimostrazione di un forte interesse per la sperimentazione sia nella tecnica che nei contenuti.

L’industria cinematografica egiziana è sempre stata vicina al regime ma più che promuovere un messaggio esplicito di propaganda, si concentra sul facile intrattenimento delle commedie e dei film d’azione, con la funzione di consolidare il discorso dominante e confermare gli stereotipi della società egiziana senza mettere in discussione esplicitamente l’autorità dello stato e dell’esercito. I film del Festival hanno invece trattato di temi seri come la censura, il conflitto tra generazioni, la repressione, la corruzione morale, la ribellione, facendo inevitabilmente riflettere sulle forti risonanze con la drammatica attualità dell’Egitto e affrontando trasversalmente temi strettamente pertinenti al momento storico contemporaneo. Non a caso si è dato particolare risalto al cinema iraniano, non solo con la premiazione di Melbourne, ma anche con la proiezione dell’importante documentario “A cinema of discontent” di Jamsheed Akrami che, attraverso interviste in profondità con i registi più talentuosi e affermati degli ultimi anni tra cui Jafar Panahi, Bahman Ghobadi e Asghar Farhadi, porta alla luce gli innumerevoli e assurdi ostacoli che gli artisti devono affrontare nel loro lavoro quotidiano riuscendo, nonostante le difficoltà e le restrizioni, a produrre opere di grande valore, destinate a diventare parte della storia del cinema mondiale.

Particolarmente azzeccata anche la scelta del film indiano “Court” di Chaitanya Tamhane, che racconta con pacata ironia e grande disinvoltura narrativa l’avventura di un anziano “attivista” cantautore costretto a destreggiarsi tra cavilli legali e udienze in tribunale dopo essere stato accusato di incitamento al suicidio per aver scritto una canzone sulle condizioni disumane di lavoro degli operai delle fognature.

Il racconto ricorda i tanti episodi kafkiani che hanno visto protagonisti attivisti, giornalisti e autori egiziani accusati dei crimini più originali per aver osato esprimere le proprie idee politiche o per aver denunciato le ingiustizie compiute dal governo. Proprio negli ultimi giorni del Festival si è scatenata un’accesa polemica quando dal red carpet l’attore Khaled Aboul Naga ha accusato il Presidente Abdel Fattah Al Sisi di aver fallito nella missione di proteggere il popolo egiziano. “Se non è capace di garantire la sicurezza senza sacrificare i diritti dei cittadini, non merita di occupare il posto del capo di governo” ha affermato di fronte alle telecamere. L’avvocato Samir Sabry ha denunciato Aboul Naga di tradimento, minacce al governo e alla pace sociale. Da un certo punto di vista appare contraddittorio che in Egitto possa aver luogo un Festival del cinema di portata e livello internazionale in questo momento storico senza che la direzione artistica subisca interferenze e censure esplicite da parte del governo in merito alla scelta dei film. Ciò è in parte dovuto al fatto che la censura e la repressione colpiscono senza pietà con intimidazioni e arresti arbitrari quando i contenuti ritenuti potenzialmente “sovversivi” dalle autorità vengono diffusi attraverso la radio, la tv e i video virali postati sui social media, cioè quando il pubblico di riferimento è abbastanza vasto. Nonostante ciò esiste ancora (per il momento) un margine di tolleranza se si tratta di manifestazioni culturali “di nicchia” o limitate nel tempo. Il successo del Festival, con una selezione decisamente di qualità e quasi eccessivamente impegnata e sobria, in un periodo in cui gli eventi culturali rappresentano una preziosa e necessaria fonte di intrattenimento, dimostra l’importanza del lavoro culturale come forma di resistenza, nonostante l’incertezza, la censura e la violenza.