Cairo – Dentro Abdel Fattah el Sisi, fuori Bassem Youssef. Potrebbe esser questo il titolo di un articolo egiziano. Ma non è così. Nessun giornale usa questi toni per descrive la coincidenza tra l’ascesa al potere del nuovo presidente – acclamatissimo dal 98% degli elettori che sono andati a votare (il 47%) – e l’uscita di scena della stella comica – e quasi solitaria – della libertà di espressione egiziana.
Bassem Youssef spegne infatti le telecamere che hanno trasmesso lo spettacolo televisivo più seguito dopo la rivoluzione del 2011. Una trasmissione di satira politica che ha fatto ridere quasi tutti gli egiziani, anche se raramente insieme. Quando nel 2012 intratteneva il suo pubblico prendendo in giro il processo di islamizzazione che stava attraversando la società, il governo della Fratellanza Musulmana l’ha portato in tribunale, accusandolo di aver offeso il presidente. Quando i generali che ridevano a crepapelle nel vedere la sua satira anti-islamista hanno saputo che nel 2013 sarebbe tornato in onda con una puntata critica nei confronti del loro intervento del 3 luglio, ne hanno ordinato la censura. Bassem ha quindi cambiato canale, è stato costretto a un riposo forzato per non disturbare la scontata campagna elettorale, e quando – settimana scorsa – era pronto a tornare in onda ha annunciato che per Al-Barnamag, il suo Programma, era giunta l’ora X. Troppe le pressioni su di lui, ancora di più quelle subite da Mbc Masr, un canale di proprietà saudita che trasmettendo il suo show rischiava di infastidire i reali di Riyadh generosissimi nei confronti dei militari egiziani.
Il percorso ad ostacoli della presenza televisiva di Bassem Youssef mostra non solo fino a che punto i media egiziani riescono a influenzare l’opinione pubblica – e quindi anche il sostegno al nuovo presidente – ma anche il contesto illiberale nel quale agiscono. Basta riguardare alcune trasmissioni dell’epoca nasseriana per capire che dagli anni ‘50 ad oggi continua a esistere un filo rosso oltre il quale è pericoloso andare. All’epoca del presidente Gamal Abdel Nasser i media erano sotto il controllo dello stato, ma anche se nei tre decenni mubarakiani qualcosa si è smosso, le voci critiche del potere devono sempre combattere contro il Golia di turno.
Oltre al riproporsi di queste costanti tipiche dell’ambiente mediatico egiziano, dalla scorsa estate la maggioranza dei media – a partire dalle televisioni private – ha iniziato a fomentare la polarizzazione, esacerbando il linguaggio conflittuale e contribuendo a trasformare la competizione politica in una semi guerra civile. Per Bilal Al-Fadl, penna critica tanto nel periodo islamista che ora, “le televisioni hanno svolto un ruolo criminale.”
Secondo la ricostruzione fatta da Matt Brandley sul Wall Street Journal, i giornalisti avrebbero deciso di utilizzare alcuni termini e diffondere una certa narrativa dopo una serie di proteste organizzate dagli islamisti nei dintorni della Media City del Cairo. Spaventati dalla violenza dei gesti di questi manifestanti che criticavano i giornalisti di essere troppo severi nei confronti della Fratellanza Musulmana, un gruppo di direttori avrebbe deciso di usare il termine “terroristi” per descrivere gli islamisti.
Da quel giorno è andata in onda la “lotta contro il terrorismo nero”, spesso accompagnata da colonne sonore tipiche dei film d’azione di Hollywood e dalla comparsa di scritte in sovraimpressione che hanno inneggiato gli egiziani ad arruolarsi nella lotta per la salvezza della patria. Dalla musica di Rocky a scritte in inglese per convincere anche gli stranieri che quello in corso lo scorso luglio in Egitto non era un colpo di stato, ma una guerra contro il terrorismo. “Dietro la difesa agli islamisti si nasconde un piano sionista sostenuto dagli americani, in primis dalla Cnn” mi ha detto un collega egiziano, spiegandomi la decisione della sua emittente di mandare in onda alcuni frammenti della Cnn, sottotitolando le frasi nelle quali il canale statunitense descriveva quello in corso come un golpe.
Del resto, l’anti-americanismo è sempre stata un’arma di battaglia politica utilizzata per screditare gli avversari e compattare il paese al proprio fianco.
Per capire la più recente evoluzione dei media egiziani, basta fare un rewind della storia di OnTv, emittente che il tycoon copto Naguib Sawiris ha venduto nel 2012 al produttore tunisino Tarek Ben Ammar. Un canale che da quando è nato, nel 2008, non ha avuto paura a criticare il regime di Hosni Mubarak. A pagare il conto di questo coraggio sono stati in prima battuta i giornalisti come Ibrahim Eissa, presentatori – sia ieri che oggi – dell’emittente. Eissa scontò con il carcere la sua alzata di voce contro Mubarak. Dopo la caduta del dittatore ebbe però la sua rivincita, testimoniando nel processo contro il vecchio raìs e accusandolo di aver ordinato alla polizia di accendere il fuoco contro i manifestanti di piazza Tahrir.
Secondo i comunicati stampa pubblicati dopo la seconda fase del processo Mubarak, Eissa avrebbe in seguito ritrattato parte della sua testimonianza, scagionando il deposto raìs. Anche se Eissa ha definito incorretti i comunicati stampa, basta vedere come ha condotto l’intervista a Sisi durante la campagna elettorale per rendersi conto che il tono della sua voce è cambiato, accordandosi e rinforzando la Sisimania dominante.
Non ha quindi sorpreso sentire i presentatori di OnTv accusare di pigrizia, egoismo, ignoranza e tradimento quegli egiziani che il 26, 27 e 28 maggio non si sono messi in fila per votare. Quando la commissione elettorale ha annunciato che avrebbe tenuto aperti in seggi un giorno in più, un presentatore del canale Al-Youm è comparso davanti alle telecamere dichiarandosi pronto a “tagliarsi le vene per convincere gli egiziani a votare.”
A seggi chiusi e mentre andava in onda la festa per Sisi, il governo uscente ha poi annunciato un “nuovo” sistema di sorveglianza per monitorare i social network.
Da Facebook a Twitter, passando per Instagram e Whatsapp, il ministro degli Interni egiziani ha aperto una gara d’appalto per invitare spie cibernetiche di tutto il mondo a proporre sistemi in grado di sorvegliare i discorsi on line. Avendo dalla sua parte i media, l’Egitto del presidente Sisi sembra ora preoccuparsi delle conversazioni dei suoi cittadini. “Per questo è alla disperata ricerca di un Grande Fratello al quale affidare il compito di controllore” dice un vignettista che da mesi deve smussare la sua matita quando disegna Sisi.
“In questo contesto – dice Bassem Youssef – abbandonare è un segnale di forza, non di debolezza. Volete che arrivi sul palco per cantare slogan patriottici? Stiamo vivendo un’era di prosperità democratica – aggiunge con il suo piglio ironico – e se qualcuno dice diversamente gli taglio la lingua.”