La Cellula del Mariott davanti alla Corte penale

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Potrebbe sembrare il titolo di una fiction poliziesca, ma in realtà è l’ultimo atto di un copione che in Egitto si ripete da mesi: il ritorno del bavaglio per i giornalisti stonati.

Il 20 febbraio, infatti, compariranno davanti ai giudici venti operatori della comunicazione accusati di aver fatto dell’hotel Mariott la base delle loro operazioni sovversive. Due stanze di uno degli alberghi più frequentati dai giornalisti internazionali nella tranquilla isola di Zamalek, il paradiso dei diplomatici occidentali. Ironia della sorte: il set dove il nuovo regime bacchetta i giornalisti è uno dei pochi luoghi dai quali durante la rivoluzione del 2011 si riusciva a sopperire al taglio di internet imposto dal regime, sfruttando i canali satellitari portati dagli inviati per spedire gli articoli alle redazioni.

Nella lista dei venti giornalisti chiamati a giudizio per incitamento alla violenza contro lo Stato, diffamazione della reputazione nazionale e creazione di notizie false, ci sono anche quattro reporter stranieri accusati di aver lavorato di fantasia per veicolare un’immagine positiva della Fratellanza Musulmana. Per i dodici egiziani invece l’accusa è anche quella di appartenere alla stessa Fratellanza – che continua a definire il deposto presidente Mohammed Mursi il legittimo capo di stato egiziano ed è stata nuovamente costretta alla clandestinità, dopo la sentenza della Corte che l’ha definita un’organizzazione terroristica.

A finire dietro le sbarre sono soprattutto giornalisti e operatori di Al-Jazeera, il network del Qatar che ha sostenuto la rivoluzione prima e gli islamisti dopo, anche quando Mursi stava diventando sempre più autoritario. Tra questi spiccano i nomi di Baher Mohammed, Peter Greste – australiano – e Mohammed Fahmy – egiziano canadese. I tre si trovano nel carcere di Tora, lo stesso che ha ospitato l’ex presidente Hosni Mubarak e dove ora è detenuta la maggioranza dei leader della Fratellanza, oltre ai figli del dittatore deposto nel 2011.

Un video di ventidue minuti, che mostra la scena dell’arresto, è andato in onda su Al-Tahrir – il canale creato da Ibrahim Eissa, giornalista che ha pagato con il carcere la sua lotta contro il regime di Mubarak e che ora sostiene il ritorno dei militari. Il filmato, accompagnato dalla colonna sonora di Thor, è stato criticato da quanti l’hanno ritenuto una spettacolarizzazione dell’arresto e, soprattutto nella scena nella quale Fahmy conta i dollari sul comodino, una speculazione sull’eventuale interferenza complottata dagli stranieri.

“Caro governo egiziano, arrestare giornalisti con l’accusa di rovinare l’immagine egiziana rovina di fatto l’immagine egiziana” chiosa su Twitter Sandmonkey, un giovane e attivo internauta conosciuto da anni per le sue idee liberali.

A fargli eco è anche Sarah Carr: “Il video dell’arresto dei giornalisti di Al-Jazeera macchia l’immagine egiziana più di quanto ogni giornalista-spia terrorista possa sperare di fare.”

 

Nell’elenco della Cellula del Mariott, è comparso anche il nome di Rena Netjes, corrispondente olandese della radio Bnr e del quotidiano Parool, che è riuscita, come altri dodici colleghi presenti nella lista nera, a lasciare l’Egitto prima che le autorità cairote le mettessero le manette ai polsi. Anche Dominic Kane e Sue Turton, due giornalisti britannici confusi per membri dello staff di Al-Jazeera, avevano lasciato il paese dopo aver subito delle minacce. E la lista dei giornalisti che hanno subito pressioni e arresti potrebbe andare avanti a lungo, considerando anche solo gli ultimi mesi di cronaca egiziana, marcati oltretutto dall’uscita di scena del programma di Bassem Youssef. Tra il 2012 e il 2013, il comico ha fatto ridere telespettatori e generali con i suoi spettacoli di satira politica, critici della dirigenza islamista; ma quando lo scorso novembre è tornato in diretta e ha criticato la dilagante Sisi mania a sostegno del general Abdel Fattah el Sisi [1], la Cbc gli ha staccato le spina. Bassem è tornato sul piccolo schermo a inizio febbraio, con questa puntata trasmessa sul canale Mbc, riscuotendo però meno successo rispetto alle puntate delle precedenti serie – almeno secondo quanto riferiscono i click sul web.

 

Qui, il video della video della prima puntata di Al-Barnamag (3a stagione), sottotitolato in italiano da Fouad Roueiha

 

Mostrandosi preoccupati per la libertà dei media egiziani, numerosi attori internazionali hanno criticato l’atteggiamento delle autorità locali. A parlare è stato non solo il dipartimento di Stato statunitense – che al contempo sta studiando le modalità per riprendere l’invio verso il Cairo di quei sussidi che a luglio il presidente Barack Obama aveva deciso di ridimensionare – ma anche il Regno Unito, la Germania e l’Unione Europea, la quale ha annunciato che un vero sblocco degli aiuti previsti per l’Egitto arriverà solo “con un governo democraticamente eletto.”

I colleghi di Greste però non hanno fiducia nei progressi della transizione egiziana e, attraverso il network di Al-Jazeera, hanno lanciato la campagna #FreeAJstaff per chiedere la liberazione dei membri del loro network, anche attraverso una petizione, la seconda dopo quella lanciata a metà gennaio da una cinquantina di giornalisti di fama internazionale. Più cauta la reazione degli egiziani: a mobilitarsi sono stati soprattutto i fotoreporter che a inizio febbraio hanno lanciato una campagna simile a quella di Al-Jazeera nella quale si fotografano imbavagliati dalla bandiera egiziana, mentre tengono in mano un foglio con il quale richiedono la liberazione dei giornalisti.

La morsa sulla libertà d’informazione è stata denunciata anche da organizzazioni come Amnesty International e la Commissione per la protezione dei giornalisti che, già il 30 dicembre 2013, aveva sottolineato  il “drammatico peggioramento” della situazione nei dintorni del Cairo, descrivendo l’Egitto come il paese più pericoloso per svolgere il lavoro giornalistico, insieme a Siria ed Iraq. A dirsi sorpreso di questo veloce peggioramento è anche Greste che, nella sua ultima lettera dal carcere, mette nero su bianco l’assurdità della situazione: “Si suppone che i giornalisti non diventino mai parte della storia” che raccontano – e invece quello che è accaduto alla Cellula del Mariott è proprio questo.

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Note
[1] Sisi è l’uomo al vertice del Consiglio Supremo delle Forze Armate; dopo la manifestazione contro Mursi del 30 giugno scorso – la più grande della storia egiziana – Sisi ha deposto lo stesso presidente, nominandone uno ad interim e annunciando una nuova road map.