Una legge che prevede nuove restrizioni per l’utilizzo della rete attende ora di essere firmata dal presidente della repubblica Abdullah Gül. A votarla è stato, il 5 febbraio, il parlamento turco.
È stata voluta dal Ministero della Famiglia e delle Politiche sociali per implementare nuove misure per la tutela dei minori, dei diritti individuali e più in generale della privacy dei cittadini. In realtà, secondo le dure critiche e le voci di opposizione che si sono sollevate già durante il dibattito parlamentare, le nuove disposizioni rappresentano un ulteriore passaggio verso il progressivo restringimento della libertà di espressione e di stampa a cui si assiste da alcuni mesi in Turchia.
Secondo la nuova legge, l’autorità turca per le telecomunicazioni, la Tib (Telekomünikasyon iletisim baskanligi) può bloccare l’accesso ai siti internet o rimuovere contenuti considerati offensivi per la privacy in un lasso di tempo di quattro ore e senza un’autorizzazione preventiva da parte della magistratura. Inoltre, il testo di legge prevede che siano conservati da parte dei provider dati sensibili come le informazioni personali degli utenti internet, sempre a disposizione delle autorità nel caso fossero richiesti.
La Turchia non è di certo nuova a tentativi di controllo della rete da parte del governo di Recep Tayyip Erdoğan. È ormai abbastanza noto il caso dell’oscuramento del canale Youtube nel 2007, durato per quasi due anni, dopo la denuncia di alcuni video che, secondo il governo, costituivano un’offesa alla memoria di Mustafa Kemal Atatürk. Dal 2010 l’organizzazione Reporters sans frontières ha inserito la Turchia tra i paesi da tenere sotto stretta vigilanza per la censura su internet. Infatti, come denunciava già allora l’organizzazione, decine di migliaia di siti erano stati bloccati perché ritenuti lesivi nei confronti di argomenti sensibili nel paese – dalla figura di Atatürk all’esercito, dalla dignità della nazione alla questione delle minoranze.
Oltre alle misure restrittive del 2007, nuovi provvedimenti legislativi in materia di comunicazioni e informazione online erano subentrati nel 2011, scatenando una serie di mobilitazioni in diverse città turche che avevano come slogan “Giù le mani da internet” (“internetime dokunma”).
Anche la nuova legge ha suscitato grosse proteste e a meno di un mese dalla manifestazione del 18 gennaio per la difesa della libertà di espressione su internet, sabato 8 febbraio, un nuovo corteo contro la censura dei media ha tentato di sfilare nella zona di Taksim, trasformatasi però in poche ore ancora una volta in un teatro di scontri e attacchi violenti della polizia, tanto da richiamare alla mente ricordi ancora piuttosto vivi degli eventi di Gezi.
Preoccupazioni e critiche contro la legge sono state mosse non soltanto da parte di cittadini, organizzazioni della società civile e dal principale partito dell’opposizione, il Chp. La TÜSIAD, l’Unione turca degli industriali e degli uomini d’affari, e l’Ordine degli avvocati (Türkiye Barolar Birliği) si sono rivolti direttamente al presidente della Repubblica, chiedendo di porre il veto alla legge e ricordando come la Turchia sia stata già condannata dalla Corte europea per i diritti umani nel 2012 per non rispettare l’articolo 10 della Convenzione europea sui diritti umani che garantisce la libertà di espressione. Il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, con un messaggio inviato via Twitter, ha definito la nuova legge “un passo indietro in un ambiente già soffocante per la libertà dei media”.
Turkish parl approval of bill tightening gov control over internet – step back in an already suffocating environment for media freedom
— Martin Schulz (@MartinSchulz) 6 Febbraio 2014
Gli eventi di Gezi, le proteste scoppiate tra fine maggio e inizio giugno, hanno mostrato in modo eclatante i grossi limiti alla libertà di informazione e di espressione che vigono in Turchia.
Se durante le proteste la copertura degli eventi era possibile principalmente grazie ai social network – Facebook e Twitter soprattutto – quando le manifestazioni erano ancora in corso, è emersa in modo chiaro la volontà sempre più ferma da parte del governo di controllare i media. I giornalisti che si sono sottratti ai sottili meccanismi dell’autocensura e hanno deciso di commentare e seguire gli eventi o ancora di criticare le reazioni del governo sono stati puniti con le dimissioni, come mostra la sorte di noti editorialisti quali Hasan Cemal o Can Dündar. Di recente è stata poi rivelata un’intercettazione in cui il capo del governo dava istruzioni al direttore di Habertürk, un canale televisivo molto attivo durante gli avvenimenti di Gezi.
Durante le proteste, per il ruolo che hanno ricoperto – in un paese in cui l’uso di internet tra l’altro è ampiamente diffuso – erano anche i social network a trovarsi nell’occhio del mirino. Accusati di aver diffuso false informazioni e contribuito a screditare l’immagine del paese all’estero, alcuni giornalisti di testate rinomate come la Cnn-Türk o la Bbc sono stati attaccati e offesi dalle autorità e molti manifestanti sono stati denunciati e portati in tribunale a causa di twitter e post. Inoltre, va ricordato il tentativo da parte di Erdoğan di stringere accordi con le società di Facebook e Twitter per ottenere informazioni sugli utenti. È chiaro quindi che la nuova legge si inserisce a pieno titolo in un clima diventato sempre più pesante e opprimente per la libertà di stampa e di espressione tanto più che giunge in un periodo piuttosto delicato per il governo turco, in un contesto politico e sociale attraversato da grandi tensioni e una profonda incertezza.
Gli scandali per la corruzione scoppiati il 17 dicembre hanno, infatti, aperto una crisi di Stato con notevoli contraccolpi per tutto il sistema politico e istituzionale.
La crisi che sta attraversando il governo, che deriva di fatto da una grossa frattura tra le due anime del partito Akp, si misura progressivamente con la morsa che si stringe sempre più attorno all’informazione e alla struttura del potere. Dopo la prima clamorosa ondata di arresti dovuti all’inchiesta per corruzione, dietro la quale ci sarebbe secondo il capo del governo “un complotto ordito da un gruppo di poliziotti e procuratori” Recep Tayyip Erdoğan ha proceduto innanzitutto con un rimpasto di governo.
Successivamente, ha dato il via a una vasta operazione di epurazioni nella polizia, nei ranghi giudiziari e nell’amministrazione, con dimissioni forzate e trasferimenti, e ha lanciato una più ampia opera di ristrutturazione dei poteri, che mette in crisi in particolare l’autonomia del potere giudiziario, come dimostra la recente proposta per la riforma del Consiglio superiore della magistratura (Hsyk – Hakimler ve Savcılar Yüksek Kurulu). Appare, questa, una deriva autoritaria – come denunciano da più parti organizzazioni della società civile, ordini professionali, intellettuali e giornalisti – che preoccupa ancor più in un clima politico dominato dall’incertezza.
Alla vigilia delle elezioni amministrative di fine marzo – la prima prova elettorale del governo dopo Gezi e lo scandalo per la corruzione – neanche i sondaggi di opinione riescono a dare indicazioni rilevanti sui comportamenti elettorali, ma è chiaro a tutti che il risultato sarà importante per capire gli immediati sviluppi del governo e del paese.