Turchia in rivolta: da #occupygezi a #occupyturkey

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Dunque è colpa di Twitter. La Turchia brucia da ormai quasi una settimana, le strade e le piazze della maggiori città del Paese sono teatro di durissimi scontri tra polizia e manifestanti, ma il primo ministro Recep Tayyip Erdogan individua nei social network la minaccia maggiore alla sicurezza turca. I fatti sono ormai noti: la decisione del governo targato AKP di abbattere i circa 600 alberi di Gezi Park – uno dei pochi polmoni verdi rimasti nel centro di Istanbul – per far posto a un centro commerciale e a una moschea, ha portato migliaia di persone in piazza a protestare. Questo fatto apparentemente circoscritto ha però progressivamente assunto i connotati di una questione nazionale e internazionale. Attraverso le lenti del mondo dei media e dei social media, emergono così alcuni paradossi che rendono la vicenda curiosa nella sua tragicità, dando l’idea di come i mezzi mediatici possano veicolare messaggi, manipolare opinioni e creare fenomeni.

In molti hanno lamentato il fatto che, mentre a livello internazionale la notizia e le immagini degli scontri di Istanbul riempivano le prime pagine dei giornali e meritavano i titoli di apertura dei servizi televisivi, in Turchia sembrava fosse tutto tranquillo. L’immagine simbolo di questa tendenza è quella postata da un manifestante su Twitter: due schermi affiancati nella stessa ora del 2 giugno, uno sintonizzato sulla CNN International e l’altro su CNN Turk, la versione turca del canale di informazione statunitense. La prima riporta le immagini dei disordini di Istanbul; la seconda un documentario sui pinguini. Storia di una rivolta non raccontata, persino sul canale satellitare di proprietà di quel Aydin Dogan che tanto era stato inviso al governo dell’AKP.

Sotto accusa anche il canale NTV, uno dei più popolari in Turchia. Non ha dato copertura degli eventi e una sua camionetta è stata presa d’assalto e imbrattata dai manifestanti con scritte anti-Erdogan. Sempre nella giornata del 2 giugno, mentre nelle piazze imperversavano ancora gli scontri, una folla di qualche centinaio di persone ha preso d’assedio la sede del canale Haberturk, dai cui studi Erdogan stava lanciando in diretta le sue accuse contro Twitter, difendendo il suo operato. C’è addirittura chi dice che una sorta di censura si sarebbe abbattuta sulle immagini e i video via cellulare, ma sembra più probabile che i disguidi siano da attribuire all’enorme traffico di rete in questi concitati momenti.

Proprio Twitter sembra aver segnato progressivamente la trasformazione della protesta: hashtag contro CNN Turk, Haberturk e NTV sono imperversati sin dal 1° giugno, per denunciare la supposta accondiscendenza dei media turchi al governo targato AKP: social media contro media, dunque. Inoltre, dopo il primo giorno di proteste, tutte incentrate sulla questione del Gezi Park con hashtag come #occupygezipark, #occupygezi e #direngezi (diren vuol dire “resistenza”), si è passati a hashtag più generali, come #occupyturkey; #direnturkiyem; #direnankara, con l’ultimo attribuito ad altre città, come Smirne. Mentre la protesta montava e cresceva, i social media hanno quindi cambiato il loro linguaggio fino ad arrivare, in concomitanza con il pugno duro usato dal governo nell’affrontare i manifestanti, ad hashtag come #Tayyipistifa, #hukumetistifa (rispettivamente “Erdogan dimettiti” e “governo dimettiti”) e #Dictatorerdogan.

Per chi non avesse ancora avuto l’idea – a dir la verità del tutto fuorviante e fuori luogo, agli occhi di chi scrive – di accostare le manifestazioni di Istanbul, Ankara ed altre città alle cosiddette “Primavere arabe”, ecco apparire #Turkishspring e #TaksimTahrir, con riferimento alla piazza del Cairo simbolo delle proteste anti-Mubarak nel 2011. Il linguaggio che segue gli eventi o viceversa? A sentire le parole di Erdogan, Twitter è un pericolo per la democrazia, “la peggior minaccia per la società perché veicola bugie.” Quasi come se fosse l’incitamento sui social network a creare tensione e a nazionalizzare e politicizzare la protesta, piuttosto che il contrario. Una democrazia che voglia ritenersi e presentarsi al mondo come tale, non può attribuire a Twitter la colpa di uno dei più grandi fenomeni di dissenso degli ultimi venti anni. Appare quindi paradossale come Erdogan faccia un uso della questione mediatica – peraltro parlando dalla televisione – citando la “disinformazione” come causa delle proteste.

Ma la questione assume toni addirittura internazionali e va oltre i confini turchi, arrivando al paradosso nel caso della Siria. Quella Siria che, mentre censura gran parte dell’informazione sul proprio conflitto interno e si dimostra maestra – seppure un po’ goffa – nella manipolazione delle notizie, è in prima linea contro la dura azione repressiva del governo turco. Mentre bombardano i propri cittadini, Asad e i propri ministri usano i mezzi di informazione nazionali per invitare Erdogan a dimettersi, dipingendolo come un feroce presidente autoritario. Da che pulpito, si direbbe. Il pulpito dell’informazione e dei mezzi mediatici che, da sempre, vengono usati a proprio piacimento da tutte le parti coinvolte in uno scontro – sia esso materiale o metaforico, politico – che vede fazioni opposte contrapporsi. Ad ennesima dimostrazione che le parole sono importanti. Senza dimenticare, comunque, che non sempre forgiano la realtà, pur dandole sicuramente una determinata interpretazione.