Le lingue degli arabi vs la lingua dei media arabi

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La lingua materna per ogni essere umano simbolizza una sfera affettiva sacrosanta, intoccabile, che innerva la trama identitaria, “la nostra vita psicologica, i nostri ricordi, associazioni, schemi mentali” (T. De Mauro), in una relazione profonda con il resto del mondo, quello reale e quello simbolico, quello d’origine e quello della migrazione.

Anche per gli arabofoni, al di là dell’appartenenza religiosa, la valenza linguistica da un punto di vista culturale ed emotivo rappresentata dal proprio idioma d’origine non è irrilevante. Un detto del profeta Muhammad marca l’appartenenza alla stirpe araba non tanto in termini di consanguineità, bensì nella capacità di parlare l’arabo. La radice araba è perciò tutta imperniata sul fattore linguistico. Elemento fondamentale fin dal periodo preislamico nella sfera delle belles-lettres, la lingua araba, soprattutto per gli arabi musulmani, ha un forte valore sacrale, dal momento che il Corano fu trasmesso bi-lisan arabi mubin, “in lingua araba chiara” (Corano, 26:195, trad. A. Bausani). Questo è il motivo per cui ci sono una serie di dogmi di perfezione e di bellezza che fanno di questa lingua un idioma perfetto con il quale Dio ha parlato agli uomini.

L’arabo è la lingua ufficiale dei 22 paesi membri che aderiscono alla Lega araba, oltre ad essere una delle cinque lingue delle Nazioni Unite. Inoltre, con più di 236 milioni di locutori, si pone al quinto posto nella classifica delle lingue più parlate al mondo.

Ma cosa si intende quando si dice che una persona “parla arabo”?

Aprendo un qualsiasi dizionario di lingua italiana, al modo di dire parlare arabo vengono forniti significati del tipo: “parlare in modo incomprensibile, oscuro”, “non spiegarsi chiaramente”, “dire cose molto difficili da capire”, ecc. Queste accezioni, frutto di un retaggio storico relativo ai rapporti con i cosiddetti Mori, perdurando hanno inevitabilmente creato bizzarri pregiudizi linguistici, racchiudibili nella nota e tutt’ora usata espressione: “Ma parlo arabo?” [1]

Ogni lingua deve essere sempre considerata nel rispettivo contesto geografico e socio-culturale, per poterne comprendere ruolo e portata. Nello specifico, la complessità culturale del mondo arabo è tutta riscontrabile anche nel suo sistema comunicativo, al punto da generare una situazione linguistica altrettanto eterogenea, unica nel suo genere (definita diglossia) [2], di cui gli stessi arabi non sempre sono consci. Non raramente, infatti, per molti di loro le diverse varietà linguistiche locali e regionali rappresentano un unicum linguistico etichettato come “lingua araba”.

In generale, gli studiosi tendono a distinguere tre livelli di lingua: arabo classico, arabo standard (Modern Standard Arabic – MSA) e varietà, spesso definite “dialetti”.

Per arabo classico, una definizione spesso usata convenzionalmente per ogni forma di arabo scritto, si intende la lingua della poesia preislamica, del Corano e della letteratura posteriore. Si tratta quindi di una determinata competenza comunicativa legata a precisi stili letterari, per cui sono pochi coloro che la padroneggiano perfettamente.

Il Modern Standard Arabic rappresenta l’evoluzione della lingua classica, sia nella forma scritta che orale, adattata alle esigenze moderne. Trova una sua espressione orale nei media in generale, nei discorsi ufficiali, nelle conferenze e nelle comunicazioni internazionali. Nella forma scritta è usata fondamentalmente nelle diverse espressioni letterarie, nei libri di testo, nella carta stampata, nella burocrazia, nel World Wide Web. Viene appresa a scuola, per cui potremmo dire che da un lato non è la lingua materna di nessun arabofono, ma dall’altro lo è, in quanto ha il potere di contraddistinguere l’identità culturale araba, al di là dell’appartenenza nazionale e/o religiosa. Relativamente al livello di scolarizzazione, un numero sempre crescente di arabofoni, data la sua diffusione, è capace di comprenderla, ma non di parlarla senza fare ricorso alla propria varietà. Sembra interessante sottolineare, a questo proposito, la percezione che gli arabofoni hanno della lingua classica e di quella standard, dal momento che si riferiscono ad entrambe con la sola espressione al-lugha al-arabiyya al-fusha, “la lingua araba eloquentissima”, evidenziando l’unicità della lingua.

Infine la varietà, definita ammiyya, “[lingua] popolare” o darija, “[lingua] comune”, rappresenta la reale lingua madre di ogni arabo, un idioma ricco di prestiti linguistici di altre lingue (inglese, francese, italiano, turco, ecc.), a cui si è esposti nei contesti familiari e informali fin dall’infanzia. Infatti, è in questa lingua che si ascoltano e si imparano le filastrocche, le fiabe, le canzoni. Usata quasi esclusivamente nella sua formulazione orale, identifica un arabofono come appartenente ad una certa nazionalità (marocchina, egiziana, siriana, ecc.) e non è raro che venga usata anche dai politici quando si rivolgono alla nazione, per mostrare empatia e vicinanza.

In ogni paese arabo è piuttosto frequente riscontrare produzioni scritte, ad esempio nella letteratura e nella pubblicità, che mescolano alla lingua standard elementi linguistici della specifica varietà.      La finalità è quella di dare un senso di realismo alla narrazione, o per rendere più familiare il prodotto che si sta pubblicizzando. Specificamente nella produzione romanzesca, se fino a qualche tempo fa la ammiyya è stata generalmente limitata a dialoghi tra personaggi del popolo, di recente sta cominciando ad acquisire una sua dignità letteraria. Molto significative quindi sono le opere scritte interamente nella varietà egiziana, una singolare novità nel mondo dell’editoria di lingua araba. Un esempio è dato dal bestseller del giornalista, regista e produttore cinematografico Khālid Al-Khamissi, con il suo Taxi. Le strade del Cairo si raccontano” ( trad. E. Pagano, 2008). Si tratta di un’operazione che va al di là del mero fatto linguistico. La lingua diventa un’“arma”, uno strumento di dissenso sociale: “Perché le storie ascoltate nelle convulse vie della capitale lasciano trapelare una denuncia caustica e ironica del malessere sociale che attraversa il paese.” [3] Negli ultimi anni, anche alla luce di tutti i movimenti di protesta, esperienze di questo genere si moltiplicano anche sulla rete, con la creazione di blog. Tra i tanti citiamo quello di Ahmad Naji, giornalista e scrittore.

È comunque innegabile che livelli maggiori di scolarizzazione, soprattutto tra i giovani, tendono in un certo senso a ridurre la distanza tra la lingua standard e le diverse varietà, anche se a livello lessicale le reciproche influenze non mancano. Quindi non è inusuale che i diversi registri linguistici dell’arabo si fondino e succede che, ad esempio, nella corrispondenza con un amico venga impiegata la lingua standard arricchita da espressioni della propria varietà. Allo stesso modo, è alquanto frequente la presenza di termini presi a prestito dalle lingue occidentali. Si tratta evidentemente di caratteristiche consolidate nella lingua che ragazzi e adulti usano on line.

Questo non significa però che ci sia una volontà di portare le varietà al rango di lingue nazionali. Anzi, ogni propensione verso questa direzione è sempre fortemente contrastata dall’establishment letterario che vede nella arabiyya al-fusha il collante della nazione araba. Ma non tutti la pensano così. Ritenuta come una lingua impraticabile dalle “persone della strada”, appannaggio esclusivo di un’élite dominante, avrebbe, infatti, il potere di diventare uno strumento repressivo delle classi dirigenti e religiose tradizionaliste [4].

Tra tutte le varietà presenti nel mondo arabo, quella egiziana del Cairo ha indubbiamente una notevole diffusione al di là dei confini nazionali e una relativa comprensione da parte di milioni di arabofoni nel mondo, una popolarità questa che, unita al forte orgoglio nazionale, induce di frequente gli egiziani a parlare la loro varietà anche in appuntamenti interarabi. Non a caso da alcuni è considerata una sorta di “lingua franca” nel mondo arabofono.

Questa rinomanza è dovuta essenzialmente alle produzioni musicali, cinematografiche e televisive cairote, specialmente nel mese di Ramadan con le musalsalat (telenovelas), che riproducono uno spaccato della società araba, trattando tematiche storiche, religiose, politiche, senza dimenticare la questione del conflitto arabo-israeliano. Il significativo legame “affettivo” a questo tipo di intrattenimento, ha fatto sì che nel 2011 si realizzasse un esperimento unico nel panorama televisivo italiano rivolto ai musulmani presenti in Italia: Babel, il canale dei nuovi italiani” di Sky (chiuso nel 2014), ha messo in onda nel mese dedicato al digiuno tre produzioni in lingua originale con sottotitoli in italiano, ambientate in Egitto, Siria e Marocco.

Dunque, se è vero che la distanza geografica tra i diversi paesi arabi è direttamente proporzionata alla pressoché incomprensibilità e quindi alla scarsa comunicabilità tra i parlanti delle varietà dei diversi paesi (arabo marocchino, arabo egiziano, arabo siriano, ecc.), è altrettanto vero che si tratta di una peculiarità che non sempre gli arabi sono disposti a riconoscere, visto che per ognuno di loro la “propria varietà” è comunque quella che si avvicina di più al classico. Va riconosciuto però che gli arabofoni del Maghreb tendono ad ammettere che le loro parlate sono indubbiamente più distanti dalla lingua standard (es. arabo marocchino).

Quindi, quando due arabi di due paesi geograficamente lontani si incontrano dal vivo o in una trasmissione televisiva o radiofonica, quale lingua utilizzano per comunicare?

Di solito si cerca di parlare una lingua che può essere definita “arabo mediano” (al-arabiyya al-wusta), ossia caratterizzata da elementi fonetici della specifica varietà, da un lessico e da una struttura grammaticale vicina alla lingua standard, e da parole di altre varianti maggiormente conosciute (es. quella del Cairo).

Da un punto di vista di repertorio linguistico, possiamo dire che ci troviamo di fronte ad una situazione, più o meno inconsapevolmente da parte degli stessi locutori, dove regnano svariate forme di plurilinguismo. Infatti oltre ai diversi livelli linguistici rappresentati dall’arabo, non è raro riscontrare nelle diverse zone del mondo arabo la presenza di altre lingue (es. berbero, curdo, ebraico, francese, spagnolo, ecc.). Questo significa che l’arabofono è in partenza un soggetto che è esposto a una serie di varietà dell’arabo e molto facilmente può venire a contatto con lingue diverse dall’arabo. Tutti questi idiomi finiscono inevitabilmente per interagire nella vita quotidiana, creando un fenomeno caratteristico del contatto linguistico, la “commutazione di codice” (code switching). Può capitare quindi, nel corso di una conversazione, che il parlante possa muoversi da una varietà di lingua (es. arabo standard) ad un’altra (es. varietà), oppure da una lingua (es. arabo) ad un’altra (es. francese), con il coinvolgimento di poche parole o di singole frasi, con il risultato di produzioni del tipo: zǝ‘ma, mā nqdǝr-sh, je suis nulle, sǝwwǝlt-u shḥāl mǝn mǝrra, je pige que dalle “Cioè, non ci riesco, sono negata, gliel’ho chiesto non so quante volte, non capisco un’acca”, (Durand, 1998).

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[1] M. Vallaro, Parliamo arabo? Profilo (dal vero) d’uno spauracchio linguistico, Promolibri Magnanelli, Torino, 1997.

[2] In arabo izdiwājiyya fi l-lugha (“sdoppiamento/duplicità nella lingua”). Consiste nell’uso di due lingue, una ritenuta di livello alto (arabo classico/standard), usata solo nelle situazioni e nei contesti formali, e l’altra di livello basso (varietà), usata in tutti gli altri momenti e contesti della giornata.

[3] Elisa Pierandrei, Ventiquattro, SOLE 24 ORE – 5/09/2008.

[4] Cfr. Chérif Choubachy, La sciabola e la virgola. La lingua del Corano è all’origine del male arabo?, Obarrao, Milano, 2008.