Dal 16 settembre scorso, è difficile che un telespettatore non sia al corrente dell’esistenza della cittadina curdo-siriana di Kobani (Ayn al-Arab in arabo) messa sotto assedio dai jihadisti dello Stato Islamico (noto in Occidente come ISIS), secondo il noto canovaccio adottato dalle piattaforme mediatiche per catalizzare l’attenzione del pubblico su un contesto a discapito degli altri: tra non molto, il destino di Kobani sarà probabilmente lo stesso delle altre città siriane sulle quali i riflettori si sono già spenti da tempo.
Il caso Kobani è stato innescato in primis dai media occidentali, che non si sono lasciati sfuggire l’occasione di ‘plasmare’ il paradigma della resistenza del mondo civilizzato (con tanto di donne combattenti) alla barbarie dell’ISIS. La copertura mediatica è stata senz’altro funzionale al successivo intervento NATO, come lo erano state, qualche mese addietro, le immagini dei curdi yazidi iracheni, costretti dai medesimi jihadisti ad asserragliarsi sul monte Sinjar.
Sempre di curdi si tratta in un contesto regionale dove i massacri di cui sono state vittime gli arabi non hanno suscitato la stessa indignazione occidentale né tantomeno sono riusciti a creare un casus belli per un intervento esterno ‘umanitario’ (si pensi al massacro perpetrato con degli armamenti chimici nei pressi di Damasco nell’agosto del 2013 o alle periodiche offensive israeliane su Gaza). La reazione dei media arabi al caso Kobani non si è fatta pertanto attendere e si è ramificata in tendenze alquanto diversificate: nel quadro geopolitico, la battaglia di Kobani è stata strumentalizzata per scagliarsi contro determinate potenze regionali, o analizzata alla luce delle sottese agende neo-colonialiste occidentali; in alcuni casi si è preferito ridurre le aspirazioni dei curdi al separatismo, in altri ci si è invece preoccupati di comprendere meglio la loro posizione nel conflitto siriano; altrove, si è cercato infine di attutire gli attriti esistenti proponendo delle storie di fratellanza arabo-curda, o si è contestata l’equazione mediatica tra ISIS e arabi, ma c’è anche chi ha optato per l’autocritica, riconoscendo ai curdi il diritto a prendere le distanze dalla ‘decadenza’ araba.
Kobani al centro degli scacchieri geopolitici
Su vari fronti, gli eventi di Kobani forniscono un’occasione d’oro per scagliarsi contro le politiche di Ankara, in un momento difficile in cui la posizione ambigua di Erdogan nei confronti dello Stato Islamico ha già incrinato i rapporti con Washington e destabilizzato il processo di pace in corso con i militanti curdi del Pkk.
Il quotidiano libanese Al-Safir, voce storica della sinistra panaraba vicina a Damasco, si affida alla penna di Mohammad Nureddin per castigare il “disorientamento (takhabbut)” delle politiche turche nei confronti della questione curda e del conflitto siriano.
Tuttavia, sono senza dubbio i media egiziani a toccare il fondo nelle invettive anti-Erdogan: alcuni tra i maggiori quotidiani e siti di informazione egiziani (tra cui Al-Shuruq e Al-Yawm al-Sabi’) dedicano infatti ampio spazio alla ‘bufala’ dei cori pro-Sisi, che sarebbero stati intonati dai curdi durante gli scontri con la polizia turca, nel corso di una manifestazione solidale con la resistenza di Kobani. Il caso nasce da un video pubblicato da un gruppo di sostenitori del presidente egiziano e dal loro fraintendimento della sigla ‘Isid‘ (Stato Islamico in turco) frettolosamente trasformata in ‘Sisi‘. A testimonianza della grossolanità in cui sono sprofondati i media egiziani in seguito all’ascesa al potere del feldmaresciallo, nessuno si è preoccupato di verificare la notizia e l’attenzione per Kobani è stata ispirata più dalla propaganda governativa che dalla reale intenzione di comprendere gli eventi in corso.
Alcune griglie di interpretazione della sinistra panaraba continuano poi a essere utilizzate per comprendere la strumentalizzazione mediatica dell’assedio di Kobani alla luce dei calcoli geopolitici dell’Occidente. Sul libanese Al-Safir si riconduce pertanto la resistenza curda alla resistenza del tessuto sociale e della conformazione geografica del territorio ai confini della Turchia moderna tracciati al tavolo degli accordi di Losanna (1923), o si discutono le nuove frammentazioni politiche ‘covate’ dalle potenze NATO, che si tratti di una “buffer zone” in Siria o di uno Stato curdo filo-occidentale.
La reale importanza strategica di Kobani e lo spauracchio dello Stato Islamico, che da mesi domina i media occidentali come una “bestia dalle capacità illimitate”, sono poi oggetto dello scetticismo di Abdullah Suleiman Ali (Al-Safir, 23 ottobre), che mette anche in guardia dall’esagerazione di media occidentali e curdi nel riportare il numero dei caduti tra le fila dei mujahidin. Si continua a propendere per la ‘cospirazione’ nascosta al grande pubblico, un piano a lungo termine di ristrutturazione del Medio Oriente di cui lo Stato Islamico continua a essere uno strumento fondamentale.
L’assenza totale di corrispondenti arabi e occidentali sul fronte dello Stato Islamico ha del resto legittimato un certo scetticismo nei confronti della copertura mediatica dell’assedio, in un campo di battaglia in cui l’unico contraltare alle fonti curde continuano a essere i video diffusi dalla formazione jihadista. Tra questi passerà sicuramente alla storia il reportage fatto realizzare all’ostaggio britannico John Cantlie il 28 ottobre, dove si sottolinea come i media si affidino ai comunicati della Casa Bianca e dei comandanti curdi, in assenza di reporter occidentali nelle aree controllate dallo Stato Islamico a Kobani. Detto ciò, è innegabile che i rapimenti e le decapitazioni dei reporter occidentali abbiano garantito allo Stato Islamico tale monopolio della copertura mediatica, il tutto a beneficio della già efficiente macchina propagandistica del ‘Califfato’.
La sproporzione tra l’attenzione mediatica e le dimensioni strategico-umanitarie dell’assedio di Kobani vengono anche criticate sui mezzi d’informazione più vicini all’opposizione siriana, seppur le conclusioni geopolitiche siano chiaramente diverse da quelle tratte dalle firme di Al-Safir.
Al-Jazeera riprende così l’ironia degli attivisti siriani e pubblica un articolo online dal titolo “La Siria si trova a Sud di Kobani?!” Si riporta quindi un’intervista rilasciata da Mohammad Amin, redattore del sito dell’opposizione Siraj Press, in cui viene ricordato come la conquista da parte dello Stato Islamico di territori ben più vasti di Kobani non abbia destato tale fermento mediatico. Le potenze occidentali mirano a estorcere denaro dalle capitali finanziarie del mondo arabo dietro il pretesto della minaccia jihadista e forse anche a distogliere l’attenzione dai massacri perpetrati dal regime siriano, secondo la lettura di Amin.
E se l’idea che Kobani abbia gettato nell’oblio i crimini di Damasco accomuna la maggioranza degli attivisti siriani, anche sul fronte opposto, quello del canale Al-Manar del partito sciita libanese Hezbollah, alleato fedele di Bashar al-Assad, si ritiene che l’assedio di Ayn al-Arab abbia favorito soprattutto gli interessi del regime baathista, che mantiene a distanza lo Stato Islamico e si prepara a raccogliere i frutti dei rapporti incrinatisi tra Ankara e Washington.
Comprendere le relazioni arabo-curde in Siria: verso una convivenza scevra da pregiudizi?
Al di là delle dinamiche geopolitiche, nei media arabi le azioni dei curdi continuano a essere talvolta inquadrate dalla lente pregiudiziale del separatismo.
Così un servizio prevalentemente equilibrato realizzato da Majid Abdul-Hadi per Al-Jazeera da Kobani viene intitolato dalla redazione qatarina “La battaglia di Kobani riporta in vita il sogno dei curdi di uno Stato che li unisca”, pur non presentando alcun’intervista a sostegno di tale tesi. Non manca poi la presa di distanza da “quella che alcuni curdi ritengono” l’oppressione storica derivata dalla condizione di etnìa priva di Stato nazione: una precisazione che non avrebbe di certo accompagnato un servizio sulle tribolazioni palestinesi.
Alcune icone di Al-Jazeera, come il conduttore del programma “La Direzione Opposta (Al-Ittijah al-Mu’akis)” Faisal al-Qasim, noto sostenitore dell’opposizione siriana, non hanno del resto mai nascosto le loro antipatie per le rivendicazioni curde. Anche la redazione della saudita Al-Arabiya, stando a quanto mi riportavano alcuni giornalisti curdi siriani che hanno avuto modo di collaborarci, non nasconde il suo scarso interesse per le aspirazioni nazionaliste quando commissiona dei servizi dalle regioni curde.
In alcuni casi, le emittenti più vicine all’opposizione siriana si sono però proposte di approfondire le posizioni dei curdi con l’intento di attenuare le tensioni con la comunità araba. In una puntata di “Seduta Libera (Jalsah Hurrah)” trasmessa dall’emiratina Alaan Tv, il conduttore si è preoccupato a buon diritto di confutare l’equazione, a volte piuttosto esplicita, tracciata da alcuni media, tra arabi e Stato Islamico, ricordando come diversi dei comandanti del ‘Califfato’ siano curdi e la maggioranza delle vittime mietute dalla formazione jihadista siano di fatto arabe.
L’equazione tra arabi e Stato Islamico è di fatti smentita dalla stessa propaganda dei seguaci di Abu Bakr al-Baghdadi, se si osserva il video “La Risoluzione del Ribelle (‘Azm al-Abaat)” dedicato all’assedio di Kobani, in cui vengono enunciati i principi fondanti dell’ideologia del nemico, il Pkk, combattuto in quanto ateo, socialista, fautore della promiscuità e dedito alla fondazione di uno Stato (non islamico) curdo, ma non sulla base dell’etnia dei suoi militanti. Nel video vengono poi dati alle fiamme alcolici e sostanze stupefacenti rinvenute nelle case degli abitanti di Kobani: nell’ottica fondamentalista, i curdi sono ben accetti a patto che si sottomettano alle norme draconiane del ‘Califfato’, e di fatti Ayn al-Arab (L’Occhio degli Arabi) viene ribattezzata Ayn al-Islam, senza alcun riferimento etnico.
Detto ciò, l’assenza di un discrimine etnico-linguistico a livello ideologico sia sul fronte jihadista che su quello nazionalista curdo – lo stesso Pkk sottolinea il carattere multi-etnico della sue strutture di “autogoverno (al-idara al-dhatia)” in Siria – non significa che non esistano dei combattenti animati da pulsioni razziste, in considerazione delle numerose conversazioni avute durante il mio ultimo soggiorno siriano (Apr-Ott 2013).
Le presunte intenzioni riconciliatorie della puntata sopracitata del programma di Alaan Tv sono però tradite dall’impostazione del dibattito con gli ospiti curdi siriani in studio: si tratta di una vera e propria raffica di domande inquisitorie, ispirate dai sentimenti anti-curdi raccolti nelle ‘strade’ arabe, senza alcun accenno allo sciovinismo diffuso in alcune frange dell’opposizione araba o alla minore resistenza incontrata dalle formazioni jihadiste nelle regioni arabe in confronto a quelle curde.
D’altro canto, c’è chi preferisce analizzare la questione curda alla luce di un’autocritica della propria comunità di appartenenza, piuttosto che tentare una riconciliazione o illudersi che non ci sia alcun nesso tra le società arabe e l’ascesa dello Stato Islamico. Succede così che il giornalista di Al-Safir Rabi’ Barakat conceda ai curdi il diritto a mantenersi immuni alla “decadenza (inhitat)” e all’“ignoranza” (volutamente definita jahiliyyah, in riferimento all’era pre-islamica) degli arabi, di cui ISIS sarebbe la perfetta incarnazione.
A prescindere dalla vicinanza di Al-Jazeera ai Fratelli Musulmani, alcuni dei collaboratori dell’emittente si sono inoltre distinti per un’analisi più lucida delle circostanze che hanno apportato una nuova linfa vitale alle istanze nazionaliste dei curdi di Siria, ben prima dell’assedio di Kobani, come nel caso di un articolo del 2 aprile del giornalista siriano Imad Mufarrij Mustafa: si parla infatti di una comunità curdo-siriana in bilico tra un’identità siriana da sempre negatale da Damasco e un’identità curda rafforzata di recente dalla militarizzazione e sfruttata dai maggiori partiti nazionalisti curdi iracheni e turchi (il Pdk di Barzani e il Pkk di Ocalan).
Persino Al-Arabiya ha più volte fatto ricorso ai risvolti sentimentali di alcune storie raccolte sul fronte di Kobani per limare le spigolose relazioni arabo-curde: è il caso del servizio dedicato a Bervin, combattente delle YPJ (l’ala femminile dei militanti del Pkk siriano) che rincontra suo padre in trincea dopo una lunga separazione. Nello stesso filone si inserice un’inchiesta ripresa dall’emittente algerina Al-Khabr (KBC), dove l’inviato si reca sulle tracce di Linda Chalabi, combattente algerina nelle fila delle YPJ di Kobani, che si sente in dovere di difendere la sua seconda patria, dove si era trasferita sette anni fa al seguito del marito curdo siriano e dove “il popolo curdo non l’ha mai fatta sentire un’estranea”.
In conclusione, risulta difficile individuare un approccio omogeneo nella copertura mediatica araba degli eventi di Kobani. Le rivendicazioni curde sono senz’altro diventate oggetto di dibattito su una serie di piattaforme influenzate da svariate correnti politiche, un dato in sè positivo alla luce della reticenza del secolo scorso, soprattutto se lo si unisce alla maggiore propensione all’autocritica della comunità di appartenenza, all’accento posto sulle esperienze condivise tra le due comunità e all’analisi scevra da pregiudizi delle dinamiche socio-politiche alla radice delle istanze nazionaliste curde.
Per quanto riguarda nello specifico l’assedio di Kobani, va inoltre riconosciuto ai media arabi di essersi astenuti dalla spettacolarizzazione propria della copertura occidentale: ci si è continuati a occupare dei massacri in corso nelle altre città siriane, dove la stragrande maggioranza delle vittime non hanno la ‘fortuna’ di appartenere a una minoranza, e non si è trasformata la cittadina curda in un’icona nemmeno troppo implicitamente xenofoba della resistenza contro la barbarie arabo-islamica.