La coalizione internazionale contro lo Stato Islamico sta fallendo? Con questo titolo, provocatorio come vuole il suo stile, noto da oltre un decennio a milioni di telespettatori di Al-Jazeera Arabic (AJA), il presentatore siriano Faisal al-Qassem, uno dei volti di punta della rete panaraba, apriva la puntata del talk show Al–Ittijah al-moakis (Controcorrente) dello scorso 4 novembre.
Dopo tredici anni di guerra in Afghanistan, la coalizione internazionale non è stata forse costretta a ritirarsi, nel silenzio più assoluto dei media, mentre “al-Qaeda e i talebani ne escono più forti che mai?”, chiede al-Qassem nel cappello introduttivo del programma. “Alla fine di tutto l’America non ha forse dovuto negoziare con i talibani?”. Lo spettro dell’Afghanistan è continuamente evocato dal giornalista come prova del fallimento della coalizione internazionale guidata dagli Usa allo scopo di debellare il terrorismo di gruppi estremisti che, paradossalmente, si sarebbero invece moltiplicati, dando vita a nuove organizzazioni come Isil. “I simpatizzanti di queste organizzazioni islamiste non sono forse arrivati in alcuni paesi della regione ad oltre il 90%?”, continua al-Qassem, senza citare alcuna fonte, in uno stile tipicamente “Controcorrente”, dove provocare conta senz’altro più di informare. Da anni questo programma televisivo interpreta certi sentori della strada araba, mette le opinioni una contro l’altra, come in un’arena, senza dare spazio a posizioni di mezzo: non a caso il suo modello è Crossfire, il format per eccellenza del talk show politico “incendiario” all’americana, andato in onda su CNN dal 1982 al 2005.
È proprio seguendo la lezione statunitense che al-Qassem si scaglia contro gli Usa e i suoi alleati, domandando perchè la coalizione sia intervenuta contro Isil, lasciando invece commettere a Bashar al-Asad atrocità contro il suo stesso popolo, per di più usando armi internazionalmente considerate illegali. “I terroristi sunniti sono forse haram, mentre quelli sciiti halal?”, è l’accusa provocatoria lanciata dal presentatore, che si riferisce al sostegno silenzioso Usa accordato all’Iran e al regime di Bashar al-Asad (gli alawiti sono considerati appartenenti all’Islam sciita) mentre i gruppi takfiri sunniti di ISIL vengono presi di mira dalla coalizione internazionale.
Questa retorica che mette insieme un generico anti-americanismo, retaggio di un panarabismo anti-coloniale di cui AJA ha sempre sposato i toni, e il sopraggiunto astio verso il regime di al-Asad (del quale il Qatar era, fino all’inizio dell’intifada siriana, uno dei principali alleati), è condensata visivamente in una delle ultime caricature apparse sul sito arabo aljazeera.net: un serpente che raffigura il terrorismo, a cui la coalizione taglia soltanto la coda. La testa, che ha le sembianze del presidente siriano, viene lasciata intatta.
In un’altra recente caricatura lo Zio Sam invita gli arabi ad unirsi nella lotta contro Da’ash (Isil): chiamata alla quale questi ultimi rispondono “labbayk”, siamo al tuo servizio. Quando invece è Gerusalemme, cioè l’intifada palestinese a chiamare la solidarietà panaraba, gli arabi si tappano le orecchie.
Curiosamente, mentre il sito in lingua araba fa uso dell’acronimo arabo Da’ash per descrivere Isil, nella presentazione del programma Controcorrente, come spesso nei notiziari di AJA, il termine ricorrente è tandhim al-dawla, l’organizzazione (nota come) stato: spesso manca persino l’attributo “islamico”, una sorta di implicita legittimazione del gruppo estremista.
D’altronde uno degli ospiti della puntata del 4 novembre , Hussein Mohammed Hussein, si presenta come ricercatore presso “il califfato islamico”. La natura del suo lavoro non viene mai spiegata: Hussein dichiara soltanto la sua fedeltà ad Al-Baghadi, l’autoproclamato califfo di Da’ash, organizzazione che, secondo il ricercatore avrebbe già raccolto grandi successi sul campo e non avrebbe bisogno nè aspetterebbe di essere riconosciuta da alcuno. Al contrario, l’ospite che rappresenta l’opinione contraria a Controcorrente, ovvero il curdo Sharzad Yazidi, fa uso esclusivamente – e con disprezzo- del termine Da’ash, definendolo una “gang che non rappresenta i musulmani”.
Aldilà del circo mediatico che sapientemente al Qassem mette in scena da oltre un decennio (inizialmente raccogliendo il consenso di stampa e pubblico per lo stile provocatorio ed innovativo rispetto a una televisione araba all’epoca ingessata e abbottonata), bisogna andare oltre la spettacolarizzazione della politica per capire la linea editoriale di AJA sulle grandi questioni regionali ed internazionali.
Il grande risalto dato da AJA all’avanzata degli houthi in Yemen è non soltanto l’ennesimo tassello del conflitto sunniti-sciiti che sta dilandiando la regione (e la chiave su cui si gioca il suo futuro, anche rispetto ad altri grandi attori mediorientali, come la Turchia da una parte e l’Iran dall’altra); si tratta di un segnale lanciato all’avversario di sempre, l’Arabia Saudita, il cui vulnerabile confine sud potrebbe venire attaccato in ogni momento dal gruppo sciita. Attentati come quello dello scorso 4 novembre ad Al-Ahsa, la moschea sciita sita nella provincia est dell’Arabia Saudita, probabilmente condotto da militanti sunniti di gruppi estremisti, hanno riacceso la possibilità di conflitti settari nel paese, dove circa il 15% appartiene alla minoranza sciita. Da tempo esiste una divergenza fra Qatar e Arabia Saudita su come trattare la questione dell’Islam politico sunnita, degenerata in aperta rottura diplomatica lo scorso marzo quando i sauditi, insieme al Bahrain e agli Emirati Arabi, ritirarono i propri ambasciatori da Doha, accusata di rompere il patto di non-ingerenza negli affari interni di paesi sovrani. Una delle questioni in ballo fra i paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) riguarda proprio il supporto all’Islam politico, in particolare ai Fratelli Musulmani, che il Qatar sostiene apertamente. In una mossa di avvicinamento ai paesi del Ccg, lo scorso settembre Doha aveva annunciato di voler espellere sette prominenti leader della Fratellanza, tutti egiziani. Ma la tensione rimane, e il meeting di preparazione al Ccg summit, che doveva tenersi l’11 novembre a Doha, è stato annullato all’ultimo minuto senza apparenti giustificazioni.
L’Arabia Saudita, e la battaglia per la leadership del mondo sunnita, sembrano dunque essere ancora al centro della strategia politica del Qatar, così come della linea editoriale di Al–Jazeera. Le ambiguità editoriali su Da’ash (che però è stato duramente criticato da Yousef Qaradawi, fratello musulmano di punta in esilio in Qatar, ed ex volto del programma di AJA Shari’a wal hayat, “Shari’a e vita”)[1]; l’enfasi sull’avanzata sciita nella regione e sull’inadeguatezza saudita a contenerla; il risalto attribuito alla questione egiziana e alle voci politiche anti-Sissi (sostenuto, invece, dagli altri paesi del Ccg), sono facce diverse della stessa medaglia.
Dall’altra parte, Al-Arabiya, la rete all-news del gruppo saudita MBC di stanza a Dubai, e concorrente di AJA, adotta una politica editoriale decisamente diversa, con scarsa rilevanza accordata alla questione houthi in Yemen e una marcata enfasi sulla lotta della coalizione internazionale contro Da’ash. Entrambi gli elementi avvicinano la rete alla posizione ufficiale del governo saudita (Al-Arabiya è un canale privato, ma di proprietà di un noto businessman saudita, per legami familiari vicino alla casa regnante), ufficialmente non interessata a soffiare sul fuoco del settarismo e impegnata, a fianco dello storico alleato Usa, nella lotta contro il jihadismo di Da’ash. Come si vede in questa schermata dello scorso 4 novembre, Arabiya definisce la lotta contro Isil “guerra contro gli estremisti”, e riporta la notizia dell’incontro dell’ambasciatore americano con le autorità locali irachene: cosa che dimostra l’allineamento della rete sulle posizioni ufficiali dell’Arabia Saudita (e, di conseguenza, per certi versi anche degli Usa).
La linea editoriale lealista di Al–Arabiya si riflette anche negli editoriali di Abdulrahman al-Rashed, direttore generale della rete, pubblicati sul quotidiano Asharq Alwasat, una delle più autorevoli voci della stampa panaraba, di proprietà di Faisal bin Salman, membro della famiglia reale saudita, edito fin dal 1978 a Londra secondo un modello di media offshore inaugurato dai sauditi per godere di maggiori margini di libertà di pubblicazione. Al-Rashed, ex direttore del quotidiano paranarabo, continua tuttora a firmare analisi su Asharq Alwasat. Come quella apparsa lo scorso 15 ottobre, intitolata “La crisi dei governi sunniti nel post-Da’ash“, dove scrive: “l’attuale allenza anti-Isis è una piattaforma politica, legale e militare che può essere sviluppata per trovare soluzioni alla radice del problema, mettendo fine alla competizione politica regionale, frenando la lotta settaria e estiguendo il regime siriano ed i suoi simili”. Una posizione, questa, simile a quella del regno saudita, ufficiale sostenitore della coalizione anti- Da’ash. Proseguendo nella lettura si trovano altri messaggi da cogliere: “quando l’Iran vuole mantenere la sua autorità sul regime di al-Asad, questo vuol dire disfarsi dei terroristi sunniti mentre si mantengono attivi i terroristi dell’Iran. Questo è inaccettabile”.
Qui il direttore di Al-Arabiya non è tanto distante dalle posizioni manifestate da Faisal al-Qassem di AJA, più sopra esaminate, rispetto al terrorismo sunnita “haram”, quindi condannato, in opposizione a quello sciita che sarebbe “halal”, e perciò tollerato. Al-Rashed spiega chiaramente la “dimensione religiosa” della crisi in corso: questo accanimento esclusivamente diretto contro i gruppi takfiri sunniti “metterà in imbarazzo i governi sunniti con i propri cittadini. Senza eliminare il regime di al-Asad e senza aggiustare la situazione settaria in Iraq, la lotta fra sunniti e sciiti arriverà al livello dei governi, delle organizzazioni e degli individui”. I governi del Golfo, prosegue l’editoriale, sono impegnati in prima linea nella lotta contro il terrorismo jihadista. Ma, sottolinea al-Rashed, “non potranno mantenere questa posizione se a un certo punto si scopre che l’Iran, i governi occidentali a supporto del regime di al-Asad, il governo iracheno e le milizie sciite estremiste lavorano su un fronte unico”.
Quello che la casa reale saudita non può certo, almeno per il momento, dichiarare ufficialmente, è esattamente quello di cui il direttore di Al-Arabiya scrive: e cioè che, “l’Arabia Saudita, i paesi del Golfo, l’Egitto e la Turchia non potranno rimanere nel campo in cui si trovano”, nel caso che venga fuori un fronte unico occidentale con l’Iran e al-Asad. Timore non affatto infondato, dati i tentativi di avvicinamento di Obama con l’Iran sulla questione del nucleare, non ultima la presunta lettera che il presidente americano avrebbe scritto a Khamenei; e il silenzio internazionale su Bashar al-Asad, un leader condannato unanimamente a parole, ma nei fatti ormai accettato come se fosse un “male minore” rispetto all’estremismo jihadista.
Eppure, se c’è un filo rosso che unisce le parole di al-Rashed e quelle di al-Qassem; se esiste un tratto comune fra media diversi come AJA e Al-Arabiya, con linee editoriali e stili di discorso giornalistico profondamente distanti, forse occorrere prestare attenzione a questi campanelli d’allarme. Per la struttura stessa dei media panarabi, e il loro legame innato con i regimi del Golfo, queste posizioni riflettono certo il sentore di Qatar e Arabia Saudita. Ma non si tratta soltanto della paura dei due più potenti regimi sunniti dell’area di perdere la supremazia geopolitica nello scacchiere delle alleanze con l’Occidente per il controllo della regione. Ricordiamo che AJA e Al– Arabiya sono comunque due reti molto seguite, che formano le opinioni pubbliche della strada araba e che da essa sono, di riflesso, condizionate. Non abbiamo dati alla mano che ci dicano con certezza quanta parte del mondo sunnita la pensi come al-Qassem e al-Rashed quando parlano di “due terrorismi”, e di due misure diverse per gestirli; ma il fatto stesso che questa sensazione esista, e che possa nel futuro crescere, e degenerare contro l’Occidente stesso, dovrebbe portarci a riflettere.
Qais Fares ha collaborato alla stesura dell’articolo
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[1] Rispetto alla questione settaria, è utile notare che in questo episodio del programma di AJA, risalente al giugno 2013, che aveva come tema il jihad in Siria, Qaradawi dichiarava che rispetto agli sciiti non bisogna fare di tutta l’erba un fascio, poichè “ci sono sciiti contro la guerra in Siria”. Inoltre nella stessa puntata Qaradawi descrive il presidente Rohani come un riformista e un uomo ragionevole.