La parodia dell’Isil in onda su Al-Iraqiyya

Trasmissione 3

La scena si apre con Abu Bakr al-Baghdadi, l’autoproclamato “califfo” di Isil (Da’ash nel suo acronimo arabo), che calorosamente saluta i “miscredenti” (kuffar). Un giovane che indossa una t-shirt con lo stemma della bandiera inglese gli si avvicina e timidamente osserva: “signore, ci sono alcuni mezzi di comunicazione che criticano il suo stato dicendo che voi non concedete libertà ai cittadini”. “E chi lo dice?”, risponde il califfo in un marcato dialetto iracheno. Poi incalza, ridendo: “Noi siamo lo stato al mondo che permette maggiore libertà e maggiore democrazia ai suoi cittadini! E se non ci credi, vai a vedere con i tuoi occhi come muoiono e come si fanno saltare in aria liberamente!”. “E che mi dici del resto della popolazione?”, ha il coraggio di chiedere il giovane. Così il califfo si convince che è arrivato il momento di fare un restyling all’immagine internazionale di Da’ash. “Chiamiamo i media amici”, ordina ai suoi fedeli, e immediatamente veniamo catapultati dentro un programma televisivo il cui nome fa il verso a “Controcorrente”, lo show di punta di Al-Jazeera che mette a confronto due opinioni diametralmente opposte. Ma qui più che di un confronto ad armi pari si tratta di un trattamento di favore per il rappresentante del califfo che, al termine della puntata, finisce per impugnare la sciabola e trascinare il suo avversario fuori dallo studio televisivo per quella che si indovina essere un’esecuzione.

Con questa doppia parodia dell’Isil e di Al-Jazeera – considerata da molti un modo per sostenere l’organizzazione jihadista – si chiude la venticinquesima puntata della serie tv Dawlat al-khurafa (Lo stato fittizio) prodotta dalla televisione di stato irachena Al-Iraqiyya. Un budget di oltre 6000 mila dollari (cifra record per una serie televisiva irachena), il programma a episodi (musalsal, in arabo) affronta con ironia il tema dell’autoproclamato “stato islamico”: argomento che tocca da molto vicino la popolazione irachena, dopo che l’organizzazione è arrivata quasi alle porte di Baghdad e controlla tuttora una fetta strategica del territorio del paese, compresa la città di Mosul. “Dobbiamo fargli vedere che non abbiamo paura”, ha dichiarato Ali al-Qassem, il regista di Dawlat al-khurafa.

Non è la prima volta che l’industria televisiva irachena, in particolare quella di fiction, affronta argomenti delicati – e rischiosi per l’incolumità di chi ne parla pubblicamente – come quello dell’autoproclamato califfato islamico. Dopo l’invasione statunitense del 2003, e il caos generale in cui è precipitato il paese, registi, attori e scrittori televisivi hanno approfittato dei più ampi margini di libertà espressiva per raccontare pubblicamente temi come l’estremismo islamico, la crescente minaccia del settarismo, la presenza militare occidentale sul territorio iracheno e le violazioni di diritti umani perpetrate dagli alleati nei confronti della popolazione civile. La seconda metà degli anni 2000 è stata un fiorire di serie televisive che affrontavano con coraggio questi argomenti: una per tutte, Fobia Baghdad (2007), il racconto allucinante di una classe media irachena che perde il suo peso politico e culturale, e che si estingue nella violenza quotidiana di  intimidazioni, rapimenti, assassini.

Questa volta il salto è evidente: il “califfo” appare nelle sembianze reali di Al-Baghadi, note al mondo intero dal giorno del suo sermone pubblico a Mosul. Le bandiere nere sono quelle dell’Isil; la situazione, seppure raccontata in chiave ironica, è quella assolutamente realistica di un villaggio iracheno che deve vivere forzatamente dentro un “califfato” dove tutto è proibito e ogni cosa è violenza. Persino una partita di calcio. Nella puntata ventisei vediamo i seguaci di Al-Baghdadi convincere il califfo della necessità di ospitare la coppa del mondo dentro il califfato. E così seguiamo una squadra di giocatori di fama mondiale (ci sono anche Del Piero e Messi) mentre sbarca dentro lo “stato fittizio” e comincia a giocare contro i dawa’ash (membri di Da’ash), vestiti di nero integrale, con barbe lunghe e sciabole a portata di mano. Naturalmente la vittoria, a colpi di lame e minacce, va alla squadra del califfo, mentre un Cesare Maldini “arabo” commenta amareggiato: “così i terroristi vincono anche sul campo di calcio, usando la violenza”. 

Insomma, Dawlat al-khurafa è una serie tv coraggiosa che usa strumenti come ironia e satira feroce di fronte a situazioni che non sono affatto lontane dal quotidiano degli iracheni, anzi costituiscono ormai una minaccia reale ad un paese già devastato da anni di guerra e caos. Certo criticare Da’ash con ogni mezzo, e cercare di alienargli il sostegno che pure l’organizzazione pare sia riuscita a raccogliere fra alcune frange tribali sunnite, rientra nella missione della televisione di stato, Al-Iraqiyya, produttrice di  Dawlat al-khurafa, che naturalmente deve rappresentare la posizione di “unità nazionale” di fronte alla crisi generata dall’avanzata dell’Isil. Anche gli espliciti riferimenti ad Al-Jazeera in Dawlat al-khurafa, dove una feroce parodia dei suoi programmi suggerisce la collusione della rete qatarina con l’estremismo islamico, va nella direzione di denunciare coloro che lavorano, anche mediaticamente, a minare l’unità nazionale.

Non è un mistero, infatti, che il canale di stanza a Doha sia schierato contro l’ex premier sciita Nouri Al-Maliki e, in generale, contro l’influenza sciita – iraniana – sul governo iracheno. Nella puntata del programma Hadith al-thawra (Conversazione sulla rivoluzione) dello scorso 23 novembre, la presentatrice del famoso show di Al-Jazeera incalzava Harlan Ullman, ex consulente della Difesa Usa, chiedendo spiegazioni del perché l’amministrazione statunitense avesse ignorato le tribù sunnite irachene quando “per oltre due anni si sono sollevate pacificamente, chiedendo di porre fine alle ingiustizie perpetrate dal governo Maliki”. Ullman rispondeva riconoscendo gli errori della strategia Usa: “senza gli sheikh della provincia di Anbar e senza la cooperazione sunnita in generale, sconfiggere ed estirpare lo Stato Islamico risulterebbe molto difficile”. Poi ammetteva come l’amministrazione di Barack Obama avesse sottovalutato il pericolo Isil all’epoca del ritiro delle truppe Usa dall’Iraq, e precisava come il governo Maliki avesse commesso “errori molto gravi che devono essere ora superati”.

Maliki e il suo mandante iraniano non sono mai stati ben visti da Al-Jazeera che, sulla questione irachena, si è da sempre fatta portavoce dell’asse “sunnita” appoggiato dal Qatar. L’ossessione della formazione di una cordata Washington-Tehran che si consolidi nella comune battaglia contro Isil è presente trasversalmente nei palinsesti di Al-Jazeera: uno spinoso argomento che viene spesso dibattuto nei talk show della rete, riflettendo la paura di Qatar (e Arabia Saudita) di perdere l’egemonia sul Golfo arabo, nonché i favori dell’alleato Usa. Nella puntata del programma Fil ‘umq (In profondità) trasmessa lo scorso 15 settembre con il titolo esplicito “L’alleanza segreta fra Washington e Tehran contro lo Stato Islamico” (come già sottolineato in una nostra precedente analisi, Al-Jazeera si riferisce a Isil usando l’espressione “l’organizzazione (nota come) stato”, spesso omettendo anche l’aggettivo “islamico”), il giornalista saudita Ali al-Dhufairi accusava l’Iran non solo di intromettersi negli affari della Siria, sostenendo militarmente il regime di Bashar al-Asad, ma anche di interferire pesantemente con il governo iracheno. D’altra parte non mancavano le polemiche contro gli Stati Uniti, colpevoli di fare da apripista all’ingerenza iraniana nella regione con la scusa di combattere “quella che viene vista come un’organizzazione terroristica”, Isil.

Oltre alla spiccata componente anti-iraniana, un altro elemento che emerge nell’analisi dei programmi di Al-Jazeera sul tema Iraq e Isil è una sorta di tacita giustificazione – proprio alla luce dell’ingerenza iraniana a sostegno delle milizie sciite nel paese – nei confronti di quella parte sunnita della popolazione irachena che avrebbe scelto di unirsi a Da’ash o, comunque, di non ostacolarne l’avanzata. Nell’episodio di Ma wara’ al-khabar (Cosa c’è dietro la notizia) dello scorso 27 novembre intitolata “Segnali di progresso dell’organizzazione (nota come) “stato” a Kirkuk e Ramadi”, veniva sottolineato come le aree marcatamente sunnite di queste province avrebbero cominciato a sostenere Isil anche nella sua conquista di territorio. Sfortunatamente, sottolineava uno degli ospiti del programma, Da’ash sarebbe diventato un modello per i sunniti, nella mancanza più totale di orientamento su quale soggetto sia più adatto a rappresentare i sunniti iracheni. Un altro ospite sottolineava come i sunniti di queste province fossero stati massacrati dalle milizie sciite che avrebbero distrutto anche i loro luoghi di culto, facendo divampare il già mal sopito odio settario; mentre i peshmerga sarebbero stati più clementi, pur non avendo anch’essi compreso a pieno la situazione. Ciò avrebbe generato terreno fertile per l’avanzata dell’Isil nell’area, sostenuta tacitamente – anche se non militarmente – dalle tribù sunnite che avrebbero trovato “chi combatte per conto loro”.

Una pericolosa situazione di crescente odio settario che si registrava già nell’estate scorsa, quando una delle guide dell’Islam sunnita, l’egiziano Youssef Qaradawi (ex volto del programma di Al-Jazeera, Sharia wal hayat, Sharia e vita, ora condannato dall’Egitto ) da anni in esilio in Qatar, avrebbe detto apertamente in un tweet del 23 giugno: “I sunniti vengono oppressi particolarmente in #Iraq e #Da’ash non è emerso in un vuoto come alcuni fantasticano”. Dall’altra parte, proprio per fare fronte al settarismo in risalita, i media iracheni, compresi quelli privati, in generale fanno quadrato attorno all’idea di “unità nazionale”, sostenendo la lotta contro Isil guidata dall’esercito iracheno, l’unica forza legittimata a portare avanti la battaglia per sconfiggere l’organizzazione terroristica. Una posizione, questa, che accomuna sia la televisione privata di matrice liberale Al-Sumaria, che Al-Baghdadia, canale satellitare di stanza al Cairo di proprietà di un imprenditore iracheno sciita, entrambi sostenitrici dell’esercito iracheno come elemento di unità nazionale nella lotta contro Isil.

La spaccatura dell’unità nazionale avverrebbe invece sui territori del pop. Recentemente, in una puntata del talent show di punta dell’intrattenimento panarabo, Arab Idol, trasmesso dal gruppo saudita MBC, è stato eliminato Ammar al-Kufi, il concorrente proveniente dal Kurdistan iracheno. Questa volta la mancanza di sostegno non sarebbe da attribuire alla giuria come era successo l’anno scorso quando uno dei suoi membri, la cantante emiratina Ahlam, si era rifiutata di indicare una delle concorrenti come proveniente dal Kurdistan, sottolineando che sempre di “Iraq” si trattava. Quest’anno la stessa Ahlam, forse per riparare al gesto di cattivo gusto dell’edizione precedente, aveva addirittura duettato con Al-Kufi, a cui era stato concesso di esibirsi in lingua curda in uno degli show panarabi per eccellenza.

L’eliminazione di Al-Kufi dallo show sarebbe questa volta dovuta al mancato supporto dei suoi connazionali iracheni. Un articolo redatto lo scorso novembre dall’agenzia irachena NINA news sottolineava il paradosso che un concorrente iracheno in un così popolare show panarabo non venisse appoggiato apertamente dai suoi connazionali, essendo forse proprio la sua identità curda l’elemento discriminante.

In un pericoloso momento in cui all’interno del paese incalza la guerra settaria – della quale Isil approfitta per rafforzarsi facendo leva sul tacito appoggio di una parte delle tribù sunnite – persino la musica pop non è territorio innocente e si trasforma nel campo di battaglia di nazionalismi e settarismi.

 

 

Qais Fares ha collaborato alla stesura dell’articolo