L’Egitto contro l’ISIS, a colpi di censura

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L’avanzata dello Stato islamico e lo sforzo internazionale per il suo contenimento fa sentire la sua eco in Egitto, dove la lotta contro il terrorismo si inserisce nella politica di controllo che da mesi tiene occupati i censori del regime dell’ex generale Abdel Fattah Al-Sisi.

Per combattere la recente battaglia contro il califfato è sceso in campo soprattutto Dar Al-Ifta, il più alto organismo religioso egiziano, che ha lanciato una campagna rivolta ai media regionali e internazionali contro l’utilizzo della locuzione “Stato islamico”. Per evitare di dare legittimità religiosa a un soggetto che distorce i termini del credo musulmano, Dar Al-Ifta suggerisce di parlare di “separatisti di Al-Qaeda.” A sostegno della sua campagna, l’organismo religioso ha anche annunciato la pubblicazione di una enciclopedia che farà luce sulla vera identità islamica e circolerà nelle diverse comunità musulmane sparse per il mondo.

Nel mirino di Dar Al-Ifta non c’è però solo il califfato. Ad attirare l’attenzione dell’organismo religioso è soprattutto l’evoluzione del discorso che anima i vicoli virtuali egiziani. Per assicurare il rispetto del vero Islam, i religiosi hanno emanato una serie di fatwa, sentenze religiose, che proibiscono atteggiamenti poco in linea con la religione. A inizio settembre, Dar Al-Ifta si è pronunciata contro le chat tra uomini e donne che non si conoscono, discussioni che rischierebbero di “aprire le porte dell’inferno, della corruzione e della fitna – la divisione interna.”

Nel corso dell’ultimo anno, non è certo questa la prima volta che le autorità egiziane cercano di controllare la comunicazione online. In precedenza, ci aveva pensato il ministero degli interni che aveva arrestato gli amministratori di alcune pagine Facebook critiche nei confronti del governo. Gli internauti arrestati sono stati accusati di blasfemia o di incitazione della violenza. L’esempio più eclatante è quello del giovane che lo scorso giugno è stato condannato a sei anni di carcere per aver ufficialmente detto “Mi piace” a una pagina considerata blasfema.

L’occhio del grande fratello egiziano non si è limitato alla sfera virtuale. Dar Al-Ifta ha anche chiesto di mettere al bando un nuovo reality televisivo che aveva lanciato la sfida tra le danzatrici del ventre. Secondo l’organismo religioso, lo spettacolo, di cui è andata in onda solo la prima puntata, è “osceno e fa parte di una campagna che distrugge il sistema morale”, rischiando di dare adito agli estremisti che potrebbero usarlo per rinforzare l’idea che la società attuale deve essere combattuta perché si oppone alla religione.

I censori egiziani non hanno poi perso di vista la letteratura. Nelle ultime settimane si sono accaniti contro tre libri pubblicati da Dar Al-Tanweer, la casa editrice libanese che arriva negli scaffali del Cairo e che ha visto confiscarsi tre pubblicazioni: Introduction to Semiotics dell’intellettuale Nasr Hamed Abu Zaid, The Mabrouma di Rabee Jaber e In Praise of Love, del filosofo francese Alain Badiou. Anche se l’editore non capisce il perché di questa censura, è utile ricordare che già mentre era in vita, Abu Zaid, vincitore anche del celebre Ibn Rushd’ Forum Award for Freedom of Though nel 2005, fu accusato di blasfemia. Il motivo? I suoi scritti, attraverso i quali ha cercato di reinterpretare i testi religiosi attraverso una metodologia scientifica moderna e alla luce del contesto polito sociale e culturale contemporaneo.

A completare il quadro della più recente ondata di censura è stata la sentenza del Consiglio di Stato egiziano che la settima scorsa ha messo al bando due canali satellitari ritenuti portavoce della Fratellanza Musulmana, il movimento islamista messo fuori legge a seguito dell’intervento militare del luglio 2013. Su NileSat non saranno più visibili Al-Jazeera Mubashira Misr, il canale del network qatarense che trasmetteva in diretta dall’Egitto, e Rabaa, la nuova televisione islamista che ha preso in prestito le antenne turche per raggiungere il suo pubblico di riferimento. Secondo le parole del Consiglio di Stato, questi canali trasmettevano informazioni inaccurate, incitando potenze internazionali contro l’Egitto, mettendo quindi a rischio la sicurezza nazionale. Questa mossa era già stata anticipata nel luglio 2013, quando altri tre canali islamisti Al-Hafez, Al-Nasr e Misr 25 sono stati obbligati a staccare la spina.

Per comprendere la recente morsa repressiva nei confronti dei media è essenziale capire che pur partendo dalla lotta al terrorismo – tema caro ad Al-Sisi che ha fatto della lotta al terrorismo religioso il cavallo di battaglia della sua carriera politica – questa campagna è arrivata ben oltre. Al-Sisi, proveniente dalle fila dell’esercito laico e secolare, si presenta ora come il paladino del vero Islam, il guardiano della morale della società il cui sistema mediatico sta attraversando un’involuzione democratica che lo riporta ai tempi dell’autoritarismo di Hosni Mubarak.
Anche al fine di mantenere alto il consenso attorno al nuovo regime, i media – tanto quelli statali che quelli privati sopravvissuti alle ultime purghe – sono tornati ad essere strumento di propaganda politica. Anche a causa di giornalisti sempre più asserviti al regime, ai telespettatori egiziani non resta che fare zapping tra trasmissioni di propaganda politica a sostegno del regime e spot commerciali.