Da Mubarak a Al Sissi, l’informazione egiziana continua a essere ferita

08/10/2013
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Negata durante l’epoca di Hosni Mubarak, sofferente durante la gestione militare, incatenata durante quella islamista. La libertà di stampa resta una delle realtà più ferite della transizione egiziana. Affetti da decenni di censura e autocensura, i giornalisti egiziani – fatta salva qualche rara eccezione – sembrano ora malati di faziosità e vittime di uno strabismo che impedisce loro di aderire a ogni etica professionale.

Mentre il nazionalismo dilagante nelle strade del Cairo tenta di addolcire l’intervento militare dello scorso luglio, sfogliando le pagine dei quotidiani, camminando tra i desk delle redazioni e navigando su siti egiziani in arabo e in inglese ci si accorge che la patologia che colpisce i giornalisti si sta aggravando.

L’eco del passato più recente e la polarizzazione politica che ha spaccato il paese hanno fatto sentire i loro effetti sui media, colpendoli ulteriormente e mettendo sempre più a rischio quella libertà di espressione che non è mai riuscita ad imporsi realmente nel paese.

Dal giorno della deposizione per mano militare del presidente islamista Mohammed Mursi, l’emergenza libertà dei media è tornata alta. Emergenza, però, tutt’altro che nuova. Durante la breve parentesi della Fratellanza Musulmana, il percorso dei giornalisti – soprattutto quello dei non islamisti – è stato una corsa ad ostacoli. 

Durante la rivoluzione del 2011 i ragazzi di piazza Tahrir avevano chiesto l’abolizione del ministero dell’informazione. Ciononostante, cavalcando i successi di una battaglia che non ha combattuto, Mursi ha preferito mettere un suo uomo in testa al ministero e suoi fidi collaboratori al vertice delle principali emittenti statali.

Oltre a citare in tribunale per “insulto al presidente” più giornalisti di quanto fece il suo predecessore in trent’anni al potere, Mursi ha cercato in tutti i modi di mettere il silenziatore a tutti i suoi oppositori. Sforzo invano che ha però contribuito a esacerbare quella polarizzazione che ha spinto la maggioranza dei giornalisti a schierarsi al fianco dei militari responsabili della deposizione del presidente. 

Mentre il generale Abdel Fattah Al-Sissi dichiarava a reti quasi unificate la nuova road map della transizione egiziana, truppe militari irrompevano negli studi televisivi di emittenti islamiste – da Al-Jazeera alle televisioni salafite più radicali – staccandogli la spina in diretta. Anche se questa azione è stata applaudita da quanti hanno accusato – a ragione – alcune di queste emittenti di esacerbare la tensione trasmettendo pericolosi appelli alla violenza, c’è stato chi, come il direttore dell’Arab Network for Human Rights Gamel Eid, ha avuto la lucidità di paragonare questa censura alle misure punitive dell’epoca mubarakiana.

L’immagine del giovane cameraman islamista Samir Ahmed Assem, colpito a morte il 7 luglio da un cecchino che ha mirato dritto nell’obiettivo della sua telecamera, è diventata l’emblema (del fantasma) del ritorno al passato.

 

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Samir Ahmed Assem

 

A finire nel mirino dei militari sono anche quei pochi giornalisti non islamisti che negli ultimi mesi non si sono fatti abbindolare dall’esercito e dal suo messaggio nazionalista, ma hanno cercato di mantenere una certa lucidità nel descrivere gli eventi in corso.

Shahira Amin ha dichiarato di aver perso il posto per aver presentato l’intervento miltare come un colpo di stato davanti alle telecamere della Cnn. Ancor peggio è andata a Ahmed Abu Deraa, alle prese con un processo militare per aver raccontato i veri effetti – anche quelli collaterali – dell’operazione militare egiziana nel Sinai.

Oltre  al giro di vite sui singoli giornalisti, il ritorno dei militari al vertice del paese lascia intravedere un’istituzionalizzazione della repressione mediatica. A fine agosto, la presidenza ha formato un nuovo Consiglio Supremo della stampa composto da quindici – e non cinquanta come era previsto – uomini.

Nessun messaggio positivo sembra poi arrivare dalle voci che circolano fuori dalle stanze dove sono riuniti i cinquanta costituenti che stanno di fatto riscrivendo la Costituzione. Quanti hanno sperato nella generosità di un nuovo testo devono prepararsi a una cocente delusione. Gli articoli relativi alla libertà di stampa e di espressione stanno subendo dei ritocchi, ma sembra chiaro che anche se queste saranno formalmente garantite, saranno limitate dalla tutela della sicurezza nazionale. In passato, la vaghezza di questi termini si è prestata a numerosi abusi.

Membri del sindacato dei giornalisti  hanno poi dichiarato che le raccomandazioni inviate ai costituenti sono state del tutto ignorate e che il nuovo testo potrebbe anche essere peggiore del precedente. Basta pensare all’emendamento dell’art. 51 che menziona i casi eccezionali in cui i media possono essere controllati. Diversamente da quanto appare nella bozza ora in circolazione, nella costituzione del 2012 non era previsto che i media potessero essere controllati anche quando – come adesso –  è in vigore lo stato di emergenza.

Quanti speravano che dopo la rivoluzione del 2011 i media riuscissero a liberarsi dal giogo della censura devono pazientare ancora un po’. Ora che i giornalisti hanno abbattuto la barriera del silenzio che impediva loro di puntare il dito contro il dittatore di turno, quanti sono arroccati al potere fanno di tutto per contenere la loro penna o abbassare il volume dei loro microfoni.

Nell’attesa, ai giornalisti non resta che stringere denti e mani. I primi per superare questa ennesima salita, le seconde per portare nella propria lotta anche professionisti di posizioni politiche opposte che vogliono rompere il medesimo giogo. Finché i media saranno schierati, i giornalisti ne usciranno sconfitti. Unendosi nella ricerca di un codice etico di professionalità potrebbero fare cartello contro quanti – sia dall’una che dall’altra parte –  vogliono mettergli a turno il silenziatore. 

 

(Immagine in evidenza: “Smettetela di minacciare i giornalisti”, © f_alez@hotmail.com)