Bloggers a raccolta all’Arab Bloggers meeting di Amman

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Un palco con delle sedie vuote. Così si apre la quarta edizione dell’Arab Bloggers meeting tenutosi ad Amman dal 20-23 gennaio. Sedie sulle quali ci sono post-it con i nomi di quei blogger che non sono mai arrivati: Alaa Abdel Fattah, fra i fondatori dell’incontro nel 2008 a Beirut, e Bassel Khartabil Safadi, attivista di spicco del movimento non-violento in Siria, nominato dalla rivista Foreign Policy fra i Top Global Thinkers del 2012. Alaa e Bassel non partecipano perché sono entrambi detenuti, rispettivamente nelle carceri egiziane e siriane, per la loro militanza nel movimento civile e le battaglie a difesa di diritti umani e della libertà di espressione. Non sono gli unici assenti. Ad altri attivisti invitati all’incontro, provenienti da Iraq e Siria, è stato negato il visto di ingresso in Giordania.

Queste assenze d’eccellenza riflettono il momento critico che vivono attivisti e blogger arabi. Dopo l’euforia seguita ai primi successi di quella che i media si sono affrettati a definire “primavera araba”, tre anni dopo, la situazione sembra capovolta. I mezzi di comunicazione sono corsi al riparo, attingendo a una nuova metafora meteorologica: il mondo arabo sarebbe ripiombato nell’ “inverno” della restaurazione.
Anche i social media, nel 2011 esaltati come elemento imprescindibile – e glamour – delle “rivoluzioni di Facebook e Twitter”, oggi salgono sul banco degli imputati, accusati di produrre odio e divisioni settarie, persino di fare proselitismo al terrorismo internazionale.

Ma la situazione è ben più complessa di come vorrebbero le facili narrazioni dei media e il sensazionalismo allarmista. Il mondo arabo attraversa profondi sconvolgimenti, provando a ridisegnare le sue identità e le sue politiche: un processo di non facile compimento, il cui percorso è segnato da violenza e fallimenti. Lo sanno bene gli Arab Bloggers, i giovani attivisti di una società giovane di cui sono sia le radici che il futuro.

Ad Amman si prova a fare autocritica. Come ha scritto Leila Nachawati, blogger siro-spagnola, dalle pagine de El Diario: “Dobbiamo smettere di pensare che la tecnologia ci risolva la vita.” 

Proprio il ruolo della tecnologia viene oggi ripensato dagli Arab Bloggers. Quella tecnologia che anni fa aveva aiutato un gruppo variegato di esperti di informatica, creatori di contenuti, attivisti per i diritti umani a costruire una piattaforma regionale per fare fronte comune su battaglie contro la censura ed altri mali dei regimi autoritari. Molte le voci critiche che si alzano dal meeting. Tra queste quella di Abeer Kopty, palestinese, che denuncia la trasformazione di molti blogger arabi in “celebrità mediatiche”. “Se questo, da una parte, aiuta a far arrivare le nostre battaglie ai media, dall’altra frammenta il movimento, indebolisce le lotte comuni a favore dell’individualismo e del culto delle personalità”.

La primavera araba ha creato dei miti: i citizen journalist che arrivano dove i giornalisti di stampo più tradizionale non vanno più; le rivoluzioni dei social network che basta ritwittare e condividere su Facebook; la leggenda che l’attivismo digitale possa rovesciare regimi e politiche autoritari. E ha generato dei mostri: le icone-blogger che i media internazionali inseguono, ignorando i movimenti sul territorio e le proteste non mediatizzate i cui protagonisti non parlano inglese, non viaggiano, e non sono “connessi”.

Il culto dell’attivismo digitale è anche perpetrato dalle miriadi di Organizzazioni non governative di attori della società civile che investono in Medio Oriente in programmi di training sulla sicurezza online, sugli strumenti anti-censura e pro-anonimato.
“Ma non sempre questo è quello di cui abbiamo bisogno” dice il ricercatore Walid al-Saqaf, fondatore dello Yemen portal. “Dalla mia ricerca viene fuori che questi training sono forse una priorità per le organizzazioni internazionali, ma non per gli attivisti della regione.” E Marcell, giovane blogger di Aleppo arrivata ad Amman dopo un lungo viaggio via Turchia, sottolinea: “Il nostro problema è che non abbiamo elettricità! E poi abbiamo bisogno di più educazione, più cultura.”

Marcell racconta del progetto di volontariato che, insieme ad altri giovani attivisti non violenti di Aleppo, sta implementando in alcune scuole della città siriana, ormai divisa fra il controllo dell’esercito di regime e quello delle milizie dell’Isil (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, meglio conosciuto con l’acronimo inglese Isis, ndr.). “Abbiamo ricostruito alcune scuole, però oltre a rimettere in piedi i mattoni dobbiamo rimettere in sesto l’identità siriana su basi non settarie, ma di condivisione e convivenza”.
Le organizzazioni internazionali non finanziano questo tipo di progetti sul territorio. Vogliono che andiamo a fare i training sulla sicurezza online o sulla giustizia di transizione. Vogliono che andiamo a Istanbul, a Beirut, soprattutto se sei qualcuno come me: donna, giovane, cristiana… una miscela perfetta sia dal punto di vista di genere che da quello religioso”. Marcell però, non se ne va dalla sua Aleppo e chiede ai partecipanti dell’Arab Bloggers meeting di considerare la ricchezza dell’attivismo civile e pacifico in Siria – Syria Untold, di cui la Nachawati fa parte, documenta ampiamente il fenomeno.

Anche da paesi meno “problematici” arrivano riflessioni critiche sull’uso dei social media nei movimenti di attivismo della regione. Lina Ejeilat, giordana, del collettivo di citizen journalist 7iber.com, sottolinea: “C’è una stanchezza oggi rispetto alla creazione e condivisione di contenuti digitali senza tregua. Rischiamo di produrre rumore, non messaggi”.
Un argomento molto dibattuto all’interno del panel “Mind the gap” che ha provato ad ospitare un dialogo aperto fra accademici che si occupano di tecnologia e movimenti sociali e attivisti della regione araba. Come ha sottolineato Jodi Dean, autrice di importanti saggi sulla seduzione del “capitalismo comunicativo”, il rischio è di cadere in un meccanismo di produzione fine a se stesso, dove si cercano soltanto likes e share e l’attenzione dei media mainstream; mentre i contributi dei singoli vengono svuotati di senso, diventando un semplice “fattore aggiuntivo” nel flusso dei dati digitali. 

La riflessione critica ha investito anche il tema della lingua e del linguaggio utilizzati nei meeting. Mentre i primi incontri degli Arab Bloggers avevano provato, con successo, a generare una sorta di “panarabismo dal basso” anche linguistico, oggi molti partecipanti, soprattutto nordafricani, si lamentano dell’egemonia dell’inglese nei workshop. Se da una parte questo aiuta il contatto con soggetti internazionali dediti alla mobilitazione civile – come il Tactical Technology Collective di Berlino – dall’altro indebolisce i legami regionali, rischiando anche di far passare, attraverso la lingua inglese, una serie di espressioni mutuate dal linguaggio delle Ong internazionali. 

Espressioni come self-sustainability, multistakeholder, skills marketplace rischiano di ricalcare un linguaggio di tipo neoliberale, spostando l’attenzione su dinamiche che coinvolgono individui con anime diverse fra loro, piuttosto che considerare gli obiettivi comuni e a lungo termine del cambiamento sociale e politico.
Su questi temi si chiude Amman 2014, e chissà che non si apra una nuova stagione di riflessione critica per questa gioventù di attivisti della regione araba.