Giordania, silenziatore sul web

16/10/2013
7iber
Era solo questione di tempo. Il regime di re Abdullah II non sarebbe rimasto a lungo inerme di fronte alla proliferazione di siti di informazione online. 
 
Lo scorso 2 giugno la commissione per il controllo delle telecomunicazioni ha infatti richiesto ai fornitori dei servizi di internet di bloccare una lista di siti che non avevano ottemperato alla legge sulla stampa e sulla pubblicazione emanata nel settembre 2012. 
 
La norma prevede per ogni portale online che gestisce “materiali di stampa” il pagamento di una tassa di 1000 JD e l’obbligo di registrarsi presso il Dipartimento per la stampa e per le pubblicazioni per ottenere la licenza governativa. Il processo di registrazione costituisce tutt’altro che una semplice formalità. Registrandosi, i siti sono tenuti a nominare un capo editore che sia membro del Consiglio per la stampa – il sindacato nazionale dei giornalisti – e che si assuma la responsabilità di tutti i commenti postati sul sito. Lo stesso dovrà archiviare i commenti degli utenti per almeno sei mesi.  
 
La scadenza per effettuare la regolarizzazione era prevista entro il 17 gennaio scorso. Dopo aver concesso qualche mese di proroga, è stato ora deciso di bloccare tutti i siti sprovvisti di licenza o non ancora registrati, circa 300. 
L’intervento governativo è stato motivato dalla volontà di porre un freno al giornalismo online stile tabloid basato su diffamazione e completa disinformazione e di permettere la chiara identificazione degli autori dei post considerati diffamatori. 
 
Reazioni interne
 
Numerose piattaforme online si sono rifiutate di provvedere alla registrazione in segno di protesta contro il dispositivo che considerano un tentativo di restringere la libertà di espressione online. Ottenere la licenza governativa vorrebbe dire essere sottoposti alle stesse restrizioni dei media tradizionali, spinti molto spesso a praticare una vera e propria autocensura, a causa dell’attenta sorveglianza dei servizi di intelligence.  
 
In un’intervista rilasciata ad Arab Media Report, Lina Eijelat – co-fondatrice del blog 7iber.com – definisce l’intervento governativo “inefficace sia perché il codice penale  prevede già la possibilità di ricorrere in giudizio contro la diffamazione subita attraverso i media, sia perché il dipartimento per la stampa e le pubblicazioni non ha incluso nel provvedimento i social media, dove continuano a essere postate le notizie.” Inoltre, sottolinea Eijelat: “il governo sta cercando di far registrare il maggior numero possibile di siti per far sedimentare la legge, contravvenendo in realtà alle sue stesse norme, eliminando ad esempio la tassa di 1000 JD”. 
 
In questa vicenda, i social media hanno svolto un duplice ruolo. Da un lato hanno accolto e diffuso le reazioni di blogger e cittadini. Il post su Facebook del blog 7iber che annunciava il suo blocco ha ricevuto centinaia di “Mi Piace” e condivisioni sia in arabo che in inglese. Su Twitter sono comparsi diversi hashtag come #CensorJo e #freeInternetJO. Dall’altro, Facebook e Twitter sono stati utilizzati per pubblicare articoli, come nel caso di AmmanNet diretto da Daoud Kuttab, e per diffondere le istruzioni per bypassare il blocco utilizzando i server proxy. 
 
 

 

 
Al contrario, i giornali e le televisioni mainstream si sono limitati a riportare a malapena la notizia. Dato il forte controllo a cui sono sottoposti da parte del governo e dell’intelligence, era del resto prevedibile. 
 
Un gruppo di giovani ha poi optato per una reazione decisamente ironica e originale, lanciando un sito di notizie palesemente irrealistiche per sbeffeggiare l’azione governativa.
 
Reazioni internazionali 
 
La notizia del blocco ha generato numerose e vibranti critiche al di fuori del paese.
A livello regionale, si sono schierate contro l’intervento governativo le organizzazioni Skyes e il Doha Media Center for Media Freedom; mentre a livello internazionale si sono mosse Human Rights Watch, Reporters Without Borders, Article 19 e The Committee to Protect Journalist.
 
Il regime sembra affidarsi a una schizofrenica politica “del bastone e della carota”. Il giorno dell’avvio del blocco dei siti è stato lanciato – forse per sbadataggine o per ironia della sorte- il quarto documento di discussione di Re Abdullah intitolato “la responsabilizzazione democratica e la cittadinanza attiva”, in cui viene ribadita l’intenzione di “espandere i mezzi e le piattaforme disponibili a tutti i giordani per permettere loro di essere cittadini coinvolti e attivi”. 
 
Intanto, le componenti più attive della società promettono battaglia nel prossimo futuro nei confronti dell’intervento governativo. Il Centro per la difesa della libertà dei giornalisti agirà sia a livello interno che internazionale. In patria farà ricorso alla Corte Suprema per conto di cinque siti di informazione bloccati, sostenendo l’incostituzionalità della legge; mentre a livello internazionale presenterà un report sullo status della libertà di espressione presso l’Ufficio dell’Alto commissariato per i diritti umani, che si occuperà a ottobre di revisionare il rispetto delle convenzioni internazionali da parte della Giordania. 
 
Il blog 7iber oltre a ricorrere al tribunale, intende lanciare a partire da settembre delle iniziative insieme ad altri gruppi, finalizzate ad aumentare la consapevolezza della popolazione sulle implicazioni della legge sulla stampa e sull’impatto che potrà avere sulle loro vite. Secondo Eijelat “il modo migliore per combattere il problema del giornalismo non professionale è proprio quello di concedere maggiori libertà, informazione e trasparenza.”                                                  
Si preannuncia dunque un autunno caldo per il regno di re Abdullah II.