Le donne nei media arabi
Tra aspettative tradite e nuove opportunità

Cop_Pepicelli

Bruciata viva, Sottomessa, Sfigurata. Sono solo alcuni dei titoli pubblicati negli ultimi 10 anni in Italia, a metà tra l’inchiesta giornalistica e la narrativa, che hanno come oggetto la questione femminile nei paesi arabo-musulmani. Libri in cui la “donna arabo-musulmana” appariva quasi costantemente come vittima di una famiglia, una società e uno stato islamici, patriarcali e retrogradi.

Questi testi, che hanno avuto una lunga eco nel nostro paese, con tutta evidenza riproponevano un’immagine del cosiddetto Oriente impregnata di “orientalismo”, concetto reso famoso dallo studioso palestinese Edward Said per individuare le lenti distorte attraverso cui l’Occidente costruiva il proprio sapere sull’Oriente, che si veniva a configurare come un sistema sociale arretrato e selvaggio che il colonialismo occidentale doveva redimere e salvare. All’interno di questa cornice cognitiva, infarcita da pregiudizi e stereotipi, non solo la figura della donna veniva rappresentata all’interno di un binomio che la voleva di volta in volta odalisca-ammaliatrice o rinchiusa-sottomessa, ma era anche “il soggetto su cui l’Occidente ha fatto convergere l’immagine di tutto l’Oriente”.

Per quanto poi l’immagine orientalista sia stata destrutturata e riconfigurata in epoca postcoloniale, la questione femminile, sempre interpretata come un unicuum al cui interno convergevano in particolare i discorsi sul velo sì/no, è spesso stata terreno fertile, per alcuni analisti e media occidentali, per continuare a raccontare la cosiddetta “eccezionalità” dei paesi della regione arabo-musulmana.

Le rivolte scoppiate nel 2011 nella regione, per molti di questi sono state una sorpresa perché scardinavano questo impianto di informazioni. La maggiore novità è stata senz’altro rappresentata dall’alta partecipazione delle donne tunisine, egiziane, siriane e yemenite a fianco dei propri compagni maschi e dal loro ruolo attivo e propositivo durante le proteste. Fiumi di parole sono stati spesi sulle donne in prima linea nelle piazze e alcuni dei loro nomi sono diventati noti anche al grande pubblico. Ma passato l’impeto della notizia sui principali media internazionali, che fine hanno fatto le donne dopo le rivolte? Chi e come le ha raccontate? E soprattutto: come si sono rappresentate?

Alcune risposte tenta di darle il saggio Le donne nei media arabi. Tra aspettative tradite e nuove opportunità (Carocci, Roma 2014), che indaga la condizione e l’immagine delle donne in Tunisia, Egitto e Marocco tra 2011 e 2012 attraverso l’analisi dei media locali in un’ottica di genere.
La ricerca, che nasce all’interno del progetto Arab Media Report ed è stata curata da Renata Pepicelli, già autrice di due monografie sul femminismo islamico e il velo nell’Islam, raccoglie sette contributi di otto giornaliste e ricercatrici che hanno studiato i media locali mainstream e i cosiddetti new media, come blog, graffiti, soap opera, film e programmi televisivi, per comprendere come le donne siano state rappresentate e come si siano autorappresentate. Il ruolo della donna è stato studiato sia in quanto soggetto dell’informazione (giornaliste, blogger, vignettiste), sia come contenuto (quanto e come la donna viene raccontata dai media?) ed è stato messo in relazione alla realtà e alle trasformazioni socio-politiche dei paesi oggetto della ricerca prima, durante e dopo le rivolte.

Tre contributi del libro sono dedicati alle arti visive: nel suo interessante saggio dedicato alle musalsalat, le soap opere arabe e turche che tengono incollati agli schermi della tv decine di milioni di spettatori (donne e uomini), Pepicelli racconta come serie di successo trasmesse durante il Ramadan del 2013 abbiano affrontano tabù sociali, come la violenza sessuale, e criticato apertamente temi di stringente attualità, come l’islamizzazione della società in Tunisia, attraverso le donne emancipate e indipendenti della fiction Yawmiyat imraa (Diari di una donna). Le musalsalat, scrive l’autrice, non sono semplici show televisivi, ma “raccontano le trasformazioni avvenute negli ultimi anni nel rapporto tra produzioni televisive, Stati-nazione e società”. I cambiamenti sociali, i tabù sessuali e i problemi delle donne nell’Egitto contemporaneo, rappresentati sullo schermo da film e documentari, sono analizzati nel dettagliato saggio di Carolina Popolani, che traccia anche i profili del regista “per le donne” Yousry Nasrallah e della regista Inas El Degheidy, per la quale le questioni di genere che tratta nei suoi film non sono solo problemi di donne, ma “riguardano tutta la società egiziana, donne e uomini”. Azzurra Meringolo tratteggia invece un interessante profilo di Doaa el-Adl, la vignettista più famosa d’Egitto e “pioniera” della sua professione. Nelle sue vignette la donna è assoluta protagonista della scena politica e mediatica: critica l’apparato di potere, denuncia gli abusi sessuali di cui le donne sono vittime in Egitto e soprattutto è emblema di quel “paradosso di genere” per cui se le donne non riescono ad essere ancora influenti nel processo di decision making del nuovo Egitto. Analizzando anche i murales fotografati giorno dopo giorno dal 2011, Merignolo nota che l’ “immagine mediatica […] femminile sta mutando”, ma a questo non corrisponde un cambiamento politico del ruolo della donna.

Nel loro contributo sulla copertura mediatica dei politici donna in Tunisia, le tunisine Maryam Ben Salem e Atidel Majbri, raccontano quanto il settore dell’informazione si sia “femminilizzato” negli ultimi dieci anni (il 57% dei giornalisti/presentatori è donna), ma allo stesso tempo sottolineano come le donne non costituiscano quasi mai il contenuto dell’informazione. Se questa “esclusione delle donne dalla scena mediatica” è frutto di una visione sessista nel mondo dei media e della politica, tuttavia le due autrici problematizzano la questione affermando che le stesse donne si auto-escludono dall’arena mediatica per scarsa fiducia in se stesse, per mancanza di tempo e perché non danno (ancora) importanza alla visibilità mediatica, preferendo altri terreni a loro forse più congegnali attraverso cui far arrivare il loro messaggio politico. Ancora sulla Tunisia, la storica Leila El Houssi critica il dato positivo della forte presenza di giornaliste sulla tv di Stato Al-Wataniya 1 sostenendo che ciò è rivelatore di come la figura femminile venga in realtà strumentalizzata e rappresenti solo una facciata: le donne vanno bene come presentatrici ma meno come inviate all’estero o in quanto autrici di reportage.

Lo iato profondo esistente tra media tradizionali e new media, staticità della società off-line e nuove opportunità e spazi offerti dai media digitali percorre come un fil rouge i contributi di Cecilia Dalla Negra e Sara Borrillo. Per la prima i new media rappresentano uno strumento di “empowerment e gender equalizer” e soprattutto uno spazio di espressione libera e senza censura, che ha dato a molte donne l’opportunità di far sentire la propria voce. Nel saggio di Sara Borrillo, l’unico dedicato al Marocco, emerge come esista una netta differenza tra l’immagine della donna marocchina veicolata dalla tv di Stato, che accanto a programmi dedicati a cucina-moda-bellezza propone programmi in cui delle telepredicatrici danno consigli alle donne su come comportarsi in famiglia e in società nel solco prescritto dall’Islam, e la donna “libera, autonoma e indipendente” promossa dai nuovi media digitali, che hanno acquistato un ruolo sempre maggiore in seguito alle proteste portate avanti dal Movimento 20 Febbraio, come il sito della rivista Qandisha, fondato dalla giornalista Fedwa Miskan.

Dalla lettura di questo testo emerge quindi una pluralità di esperienze e realtà, femminili e femministe, che travalica e rende del tutto antiquati e inefficaci gli stretti argini della visione orientalista. Una esempio di pluralismo e complessità che vale per ogni tipologia di lettori, anche (e forse soprattutto) per gli addetti ai lavori.