Salah Fourti è un “pirata” dell’etere della prima ora. Già negli anni più bui della dittatura di Ben Ali trasmetteva i programmi della sua Radio Six “assaltando” frequenze vergini con trasmettitori di fortuna e alimentatori a gasolio piazzati su qualche anonimo tetto di Tunisi. Con la rivoluzione, Radio Six , il cui nome si deve al fatto che a fondarla sono stati in sei, si è espansa. Oggi conta venti dipendenti e uno studio in una villa posizionata a 140 metri sul livello del mare: l’ideale per trasmettere su tutta la capitale e dintorni entro un raggio di 60 chilometri. Detta così sembra una storia a lieto fine, ma c’è un dettaglio: i trasmettitori installati sul tetto degli studi di Radio Six sono illegali e quella di Fourti continua ad essere a suo modo, una stazione pirata.
“Il prezzo di una licenza per una radio locale come la nostra – spiega Fourti – è di circa 50 mila euro all’anno”. Una cifra inarrivabile per il giornalista e i suoi associati. “Inoltre – continua – il monopolio delle trasmissioni rimane nelle mani dello Stato e noi ci siamo sempre opposti all’idea che il nostro segnale debba essere gestito da un ufficio del governo che in teoria ci può zittire premendo un bottone”.Per questo ognuno si arrangia come può, facendo arrivare clandestinamente trasmettitori dall’estero oppure acquistando sul mercato internazionale uno spazio sul satellite.
“Nel sistema radio-televisivo tunisino vige la legge della giungla: chi è più ricco, più furbo o più raccomandato può andare avanti e, nello stesso tempo, può essere ricattato ogni momento dal governo”, afferma Kamel Labidi, presidente dell’Inric, Instance Nationale pour la Réforme de l’Information et de la Communication, l’assemblea di “saggi” creata all’indomani della rivoluzione per traghettare la legislazione sui media tunisini verso una nuova era.
Un progetto che sembrava aver imboccato la strada giusta. All’indomani della rivoluzione, infatti, il governo ad interim tunisino ha varato delle misure all’avanguardia sull’audiovisuelle. In particolare il decreto 115 del 2011 ha spazzato via l’arsenale repressivo del vecchio codice della stampa del 1975. Tra le novità ci sono l’abolizione del carcere per il reato di diffamazione, la tutela delle fonti del giornalista e il diritto d’accesso agli atti pubblici. Il decreto 116, invece, ha stabilito la creazione della Haica, Haute Autorité Indépendante de la Communication Audiovisuelle, un ente autonomo che dovrebbe regolare e monitorare le attività dei media tunisini restando al di sopra delle parti e mettendo fine allo stato di semi-illegalità in cui vivono alcune emittenti. Questo in teoria, perché in pratica, a ormai due anni dall’entrata in vigore del decreto, l’Haica rimane solo una sigla su un pezzo di carta e spesso anche gli articoli di legge del decreto 115 vengono disattesi.
“Il governo tunisino, e in particolare il partito Ennahda, teme la creazione di qualsiasi entità indipendente che possa mettere un freno alla sua ingerenza sui media”, spiega Labidi che dal luglio scorso ha formalmente chiuso i battenti dell’Inric in segno di protesta nei confronti del governo che, a quanto pare, ha completamente ignorato le sue raccomandazioni. “Soltanto nel 2012 si sono registrati 130 casi di aggressione – quasi tutti impuniti – nei confronti di giornalisti. Tra questi vi sono l’arresto del direttore del quotidiano Ettounsia per la pubblicazione di una foto giudicata oscena e il processo a Nessma Tv per aver mandato in onda il film Persepolis di Marjane Satrapi”, racconta sconsolato Labidi. Secondo il presidente dell’Inric, nel panorama mediatico tunisino si stanno ritornando a vedere canali che ricordano le “parentopoli” da vecchio regime. “Prendiamo ad esempio al-Zaituna Tv: una stazione diretta dal figlio del Ministro dell’alta formazione che è un dirigente del movimento Ennahda. Questa come altre emittenti dovrebbero essere autorizzate e monitorate dall’Haica, che però ancora non esiste e così ognuno fa come vuole” .
Secondo il decreto 116 spetterebbe al presidente della repubblica nominare il presidente dell’Haica, ma Moncef Marzouki ha passato la palla ai partiti politici che, a detta di Labidi, più che cercare una figura di garanzia dell’indipendenza dell’informazione “stanno cercando chi continua a garantire la loro ingerenza sui media”.