Rusiya al-Yaum: come operano i PR di Mosca nel mondo arabo?

17/03/2014
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Che l’emittente Rusiya al-Yaum (RT Arabic) fosse nata nel 2006 per tradurre in arabo la politica estera del Cremlino era già deducibile dall’orientamento del canale madre anglofono, Russia Today, lanciato dal governo l’anno prima. La leadership è nella mani fidate della giovane caporedattrice Margarita Simonyan, che per i suoi 25 anni, oltre a un mazzo di fiori, aveva probabilmente ricevuto le chiavi del nuovo impero mediatico da Vladimir Putin nel 2005. Il presidente non ha mai nascosto la sua ammirazione per Russia Today, canale che ha del resto conosciuto la propria consacrazione durante la guerra tra Georgia e Russia del 2008: uno dei corrispondenti basati a Tbilisi, Will Dunbar, aveva allora dato le dimissioni in segno di protesta contro le pressioni di Mosca sulla linea editoriale.


Corteggiando l’ummah islamica

Al di là delle innegabili direttive del Cremlino, esiste una singolare prassi comunicativa utilizzata da RT Arabic per consolidare un seguito nel mondo arabo. Innanzitutto si “corteggiano” quei segmenti di opinione pubblica che si contrappongono all’influenza degli Stati Uniti e dei loro alleati nella regione, cavalcando le forme di dissenso interne agli States e stigmatizzando l’Islam politico promosso dalle monarchie del Golfo.
In secondo luogo, il confronto con l’Occidente e con Washington in particolare, si gioca sull’attenzione scevra di pregiudizi dedicata al mondo arabo-islamico da RT Arabic: in questo ambito, la Russia vanta quantomeno una presenza secolare di milioni di musulmani autoctoni, rispetto all’associazione dell’Islam all’immigrazione diffusa in Europa e negli Usa.
Le questioni più delicate, che continuano a incrinare i rapporti tra Mosca e parte dell’ummah (comunità) islamica, come la militanza jihadista caucasica, sono però affrontate senza compromessi. Le priorità della sicurezza nazionale sulle remore dettate dal rispetto dei diritti umani tornano così a inserirsi in un clima da guerra fredda mediatica, dove Mosca mette in guardia l’opinione pubblica euro-atlantica da un supporto incondizionato alle “primavere arabe”, senza prima considerarne le ripercussioni internazionali. Ed è sulla preservazione dello status quo che il Cremlino intende costruire un’agenda condivisa con l’Occidente.
RT Arabic ha tratto certamente ispirazione da Al-Jazeera, paladino dell’informazione anti-occidentale nell’arena mediatica arabofona, ma ha anche colmato il vuoto lasciato dall’emittente qatarense da quando l’onda delle rivoluzioni del 2011 l’ha resa meno indipendente dalle direttive di Doha. Da una parte, l’emittente russa si crogiola nell’anti-americanismo diffuso a livello popolare nel mondo arabo, dall’altra catalizza l’attenzione dell’Occidente sull’ascesa delle fazioni islamiche promossa dai paladini dei diritti umani.


Anti-americanismo in Medio Oriente e a Washington

La maggioranza dei giornalisti condividono una formazione in Russia e almeno uno dei volti più celebri, il conduttore del programma di approfondimento politico Panorama, Artyom Kapshuk, ha prestato a lungo servizio nella diplomazia russa in Medio Oriente prima di approdare ai media. Nell’occuparsi di mondo arabo, RT Arabic difende a spada tratta le posizioni di Mosca in contrapposizione ai media anglofoni.
Attualmente, il principale campo di battaglia è la Siria, dove l’emittente fa spesso affidamento su corrispondenti embedded nell’esercito governativo. Tra gennaio e febbraio 2013, il conduttore del programma d’intrattenimento Mushahadat (Spettacoli), l’attore egiziano Ashraf Sarhan, si è recato in Siria per mostrare l’idillio delle roccaforti lealiste, la costiera Tartus e la città vecchia di Damasco, come se nel Paese non stesse succedendo nulla. In questa puntata del 31 gennaio, dove Sarhan si fa guidare spensieratamente per le vie di Tartus da una cantante locale, non vi è molta differenza dalle pacifiche immagini di vita quotidiana, che scorrono sulle emittenti siriane filo-governative sin dall’inizio della rivolta. La ciliegina sulla torta è Suriya Ya Habibati, l’inno ba’thista che celebra la guerra arabo-israeliana del ’73, intonato dai giovani di un coro di Tartus sotto gli occhi compiaciuti di Sahran.

In generale, gli ospiti di RT Arabic, se non sono completamente allineati con Mosca, ne sono dei critici moderati. In questa puntata di Panorama del 3 maggio 2012, si concede il pulpito a un rappresentante ufficiale dell’Islam russo, il presidente del Congresso Russo dei Popoli del Caucaso Aslam Bek Baskashev, perché condanni lo spargimento di sangue che accompagna quelle che l’Occidente chiama “primavere arabe”. Baskashev depreca inoltre l’uccisione di Qaddhafi- e quindi l’intervento NATO in Libia- in quanto pratica anti-islamica.
In questa puntata del medesimo programma datata 21 luglio 2013, viene invece invitato il vice-ministro dei beni di manomorta islamica (Awqaf) kuwaitiano, Adil Abdullah al-Falah, a discutere della percezione negativa del ruolo della Russia in Siria da parte dell’opinione pubblica araba. Al-Falah, che in qualità di presidente di un’associazione islamica, il Centro Mondiale per la Mediazione (al-markaz al-‘alamiyy lil-wasatiyyah), è interessato a continuare a organizzare eventi in Russia, preferisce astenersi dal commentare l’alleanza tra Damasco e Mosca per criticare diplomaticamente lo scarso impegno umanitario di Mosca in Siria.


Guerra fredda mediatica

Per quanto riguarda la copertura degli Stati Uniti, il clima è da guerra fredda mediatica. Tra l’altro, è stato ideato un programma dal sapore sovietico, Nabd al-Mustaqbal (Il Battito del Futuro), dedicato alla celebrazione dell’industria bellica russa.
Un ampio spazio viene dedicato ai cavalli di battaglia della controinformazione americana: oltre a Julian Assange di Wikileaks, diversi veri e presunti whistleblowers (informatori), personaggi come Edward Snowden e Susan Lindauer. Quest’ultima, un’attivista pacifista che sostiene di aver collaborato a lungo con la Cia, resa celebre dalle rivelazioni sul presunto coinvolgimento del Mossad negli attentati dell’11 settembre e dalla contestazione del ruolo libico nella strage di Lockerbie del 1988, è stata più volte ospite nel 2013 del programma di approfondimento storico, Rahlah fidh-dhakirah (Viaggio nella Memoria). Naturalmente, Lindauer viene presentata da RT Arabic come un insider della Cia, mentre i legami tra l’attivista e i servizi segreti americani sono stati più volte contestati dalla stampa statunitense.
In una lunga intervista rilasciata da Putin a Russia Today il 13 giugno 2013, il presidente ha anche commentato la copertura data dal canale alla repressione del movimento di protesta americano Occupy Wall Street. Agli occhi del leader russo non è importante condannare o meno le azioni della polizia quando i manifestanti violano la legge, ma abolire piuttosto i parametri diseguali adottati nei media anglo-sassoni per raccontare gli stessi eventi, a seconda del contesto dove si verificano. Come afferma la caporedattrice Margarita Simonyan nella stessa intervista, quando gli abusi della polizia avvengono negli Usa invece che in Russia, l’emittente moscovita si preoccupa di “mettere alla graticola gli Stati Uniti.” RT Arabic adotta gli stessi parametri: ancora più cruciale del contenuto dei reportage è che colpiscano i governi dell’ex-blocco occidentale.

Difatti, lo spazio dedicato ai movimenti anti-governativi interni alla Russia è pressoché inesistente. Basti considerare questo documentario sulla Cecenia del 1 giugno 2013, dove la repubblica caucasica viene presentata come una regione in piena crescita, che ha superato ogni speranza dei suoi abitanti abituati alle macerie della guerra. Una guerra de-agentivizzata, senza alcun riferimento alla brutalità delle truppe russe. In un tentativo di infrangere la leggenda della militanza islamica cecena, ancora piuttosto popolare nel mondo musulmano, le scene girate a Grozny mostrano grattacieli luccicanti, negozi di alta moda e “i più lussuosi hotel del Caucaso, dove soggiornano gli attori Jean Claude Van Damme e Gerard Depardieu.”
I leader religiosi locali fedeli al Cremlino lodano quindi la presidenza di Ramzan Kadyrov, l’uomo di Mosca in Cecenia, mentre un carosello di immagini accompagnate da musica allegra mostra le sue strette di mano con Putin ritratte nei manifesti.

Risulta analogo il tono scelto per commentare il referendum tenutosi lo scorso 16 marzo in Crimea per sancire l’eventuale annessione della penisola ucraina alla Russia, in seguito all’arrivo delle truppe inviate da Mosca: si elogia la partecipazione di massa, il corrispondente descrive il clima “ottimista” che ha accompagnato l’arrivo alle urne di un popolo che “attende di essere ricongiunto alla madrepatria russa dai tempi del crollo dell’unione sovietica.” Mentre il 15 marzo, sul sito di BBC Arabic si sottolinea la presenza a Mosca di manifestazioni divise tra sostenitori e detrattori dell’intervento russo in Ucraina, su RT Arabic lo spazio è riservato ai “45.000 manifestanti scesi in strada a sostegno della popolazione della Crimea a Mosca.” Il paradosso è che la foto utilizzata è identica a quella della BBC, con tanto di bandiere ucraine sventolanti, solo che nel caso di BBC Arabic la didascalia recita “i contestatori in Russia considerano l’intervento in Ucraina una questione vergognosa.”
Più equilibrato l’approccio alle rivendicazioni della minoranza musulmana dei Tartari di Crimea, tornata alla ribalta degli esteri per la sua opposizione all’eventuale annessione alla Russia. In questo caso, RT Arabic riconosce il lungo esilio di cui furono vittime i Tartari sotto Stalin, il quale lì costrinse a migrare verso la l’Asia Centrale all’indomani della seconda guerra mondiale, per punire alcuni membri della comunità che avevano collaborato con i nazisti. Ai Tartari fu possibile ritornare in Crimea solamente negli anni ’80. Per il resto, spetta ai funzionari russi della regione autonoma del Tataristan rassicurare i loro “fratelli” di Crimea sulla prospettiva di un eventuale annessione a Mosca.


La Russia come antidoto all’islamofobia occidentale

Rispecchiare le posizioni di Mosca in Medio Oriente non sarebbe sufficiente a garantire 350 milioni di telespettatori: RT Arabic si è resa infatti promotrice di un approccio al mondo arabo alternativo ad alcuni media occidentali e lontano da pregiudizi islamofobici. Al confronto dei canali arabofoni fondati da BBC, France 24 e CNN, risulta inoltre ammirevole la presenza di ben quattro giornalisti russi, che parlano un arabo eccellente, oltre al consueto team composto di professionisti arabi. Sul sito di RT Arabic viene quindi riservata una sezione all’Islam e numerosi programmi si occupano della diffusione dei precetti islamici in Russia.
In questa puntata del 14 luglio 2008 di Hikayat al-Shabab (Storie di Ragazzi), programma di attualità dedicato ai giovani, si affronta per esempio il tema della poligamia, ricordando come parte dell’opinione pubblica russa la consideri una soluzione alle deficienze del nucleo familiare monogamo. Una delle pratiche più malviste da vasti settori dell’opinione pubblica occidentale diventa così uno spunto di riflessione in Russia, fino a contemplare un aggiornamento della norma coranica che includa la poliandria.
In questo notiziario del 20 gennaio 2009, si parla invece di hijab (velo) in Russia e la contrapposizione con i pregiudizi europei è ancora più intenzionale: dopo aver mostrato la diffusione del velo islamico in ambienti lavorativi e sportivi, dando voce a chi la definisce una conquista successiva alla caduta del muro di Berlino, il corrispondente conclude il servizio con un commento polemico diretto alle società occidentali, dove ci si continua a opporre al codice d’abbigliamento islamico.


La fine della guerra fredda mediatica passa per l’anti-terrorismo

All’interno della programmazione di RT Arabic, così come sulle frequenze dell’emittente anglofona, la considerazione per il dialogo con il mondo musulmano non si eleva comunque al di sopra della necessità di persuadere le cancellerie occidentali della visione di Mosca sul Medio Oriente. Ciò significa che RT Arabic, al di là della sua verve anti-americana, non intende sostituirsi all’Al-Jazeera delle origini e fornire un pulpito mediatico agli al-qa’idisti: nelle parole di Ali Vyacheslav Polosin, vice-presidente del Fondo Caritatevole Russo per la Promozione della Cultura Islamica, intervistato il 25 ottobre 2013, pochi giorni dopo gli attentati di Volgograd, nel corso del programma Hadith al-Yawm (La Conversazione di Oggi), l’ummah islamica è chiamata “a chiarire l’assenza di connessione tra Islam e terrorismo.”
Con una certa componente militante del mondo islamico, dal punto di vista di Mosca, non esiste pertanto nessun dialogo e il messaggio diretto all’Occidente è che le cosiddette “primavere arabe” – termine che fa sorridere Mosca e buona parte della stampa russa – hanno finito per avvantaggiare il radicalismo religioso. Nel corso della puntata del 12 giugno 2013 del programma Liqa’ al-Yawm (L’incontro di Oggi), l’analista Mohammad Rabi’ attribuisce pertanto la responsabilità dell’ascesa degli islamici tanto ai regimi mediorientali quanto ai servizi segreti occidentali, che hanno supportato alcune delle correnti più fondamentaliste. Un’analisi non priva di fondamento, che soffia nella direzione voluta da Mosca, considerate le relazioni tra Cia e Talebani durante il conflitto afghano degli anni ’80.
Sempre Aslam Bek Baskashev, il presidente del Congresso Russo dei Popoli del Caucaso, ospite della sopracitata puntata di Panorama, mette così in guardia dalle ripercussioni delle forme di militanza islamica diffusesi in Medio Oriente in parallelo alle rivolte, sottolineando come i giovani musulmani russi considerino il mondo arabo un modello “sacro” da emulare. A parlare sono gli esponenti ufficiali dell’Islam russo, attraverso i quali Mosca suggerisce all’Occidente di non sostenere una destabilizzazione della regione, quando sarebbe preferibile che i regimi mediorientali preservassero una casta di autorità religiose moderate e continuassero a usare il pugno di ferro con i radicali.