My stealthy freedom: la diatriba sul velo in Iran continua

10/06/2014
masih 3 fb

«Le donne straniere quando vengono qui possono stare sicuramente più comode delle nostre!». Siamo a Naqshe Rostam, a pochi chilometri da Shiraz, proprio sotto le magnifiche tombe dei grandi re achemenidi. A parlare è un uomo sui quarant’anni, appena sceso da una khodro non proprio nuovissima. Ha portato la famiglia da Yazd (lontana circa 500 km) a visitare Persepoli e Shiraz. È vestito in modo semplice, non parla una parola di inglese e sua moglie è avvolta nel più tradizionale dei chador neri. Eppure è stato lui, tra una chiacchiera e l’altra sull’Iran e sulla grandezza della storia persiana, a sollevare la questione delle regole islamiche sull’abbigliamento femminile.

Tema sempre caro ai media occidentali e riportato di recente alla ribalta da una campagna sui social media intitolata #Mystealthyfreedom (“La mia libertà furtiva”) o Azadiye yavasheki, nella versione persiana, lanciata il 3 maggio da Masih Alinejad, giornalista iraniana da anni residente a Londra.

Sulla sua pagina Facebook – chiamata “My Stealthy Freedom” (“La mia libertà furtiva”) ha invitato le donne iraniane a pubblicare le loro foto senza il foulard di ordinanza, in segno di sfida nei confronti delle leggi della Repubblica Islamica. Nel giro di pochissimi giorni, la pagina si è riempita di centinaia di foto e video, scattate soprattutto nei luoghi turistici più noti dell’Iran: davanti alla tomba di Ciro il Grande a Pasargade, sul Mar Caspio, nel deserto e – di notte – sui ponti di Isfahan. Su Twitter e Insatagram la campagna è divenuta subito un caso, ripresa e amplificata anche da molti media europei e nordamericani.

Ancora una volta, la “questione del velo” è divenuta simbolo dell’intera questione femminile iraniana. Secondo la giornalista, «per colpa del velo, le donne in Iran non possono neanche sentire il vento tra i capelli. Io ho semplicemente chiesto loro – da giornalista – di condividere con me questi scatti della loro vita quotidiana. Queste ragazze non parlano di politica, mostrano semplicemente se stesse. Perché dovrebbero essere punite?».

Dopo una prima fase di indifferenza, i media filogovernativi sono passati al contrattacco. L’agenzia semiufficiale Fars – notoriamente vicina ai pasdaran – ha infatti lanciato una campagna stampa molto pesante contro Masih Alinejad, accusandola di spionaggio e diffondendo una storia assai poco verosimile: la giornalista – dopo aver assunto sostanze stupefacenti – si sarebbe denudata nella metro di Londra dove tre uomini l’avrebbero stuprata sotto gli occhi di suo figlio. Un quadro da incubo per ritrarla come la perfetta corruttrice della gioventù iraniana.

Va anche detto che in concomitanza con l’inizio di #Mystealthyfreedom, il 7 maggio a Teheran un corteo di 4 mila donne aveva manifestato per chiedere un’interpretazione più restrittiva delle nome sull’hijab. È la risposta dei conservatori alle timide aperture del presidente Hassan Rouhani che in ottobre aveva espressamente chiesto alla polizia religiosa di essere più clemente su questo tema.

In questo senso, la campagna della Alinejad non è stata di grande aiuto per Rouhani: i suoi avversari interni hanno avuto vita facile nell’accusarlo di voler cedere alle imposizioni culturali “decadenti” dell’Occidente.

Il 24 maggio il presidente aveva dichiarato che non si possono “portare le persone in paradiso con la forza e la frusta”. Come dire: la virtù non può essere imposta con la violenza. Tre giorni dopo l’ayatollah conservatore Ahmad Khatami (da non confondere con l’ex presidente riformista Mohammad) aveva replicato: “Questo tipo di commenti spianano la strada per l’inferno”. Altri tre giorni e l’ayatollah Ahmad Alamolhoda, nella preghiera del venerdì a Mashad, era andato giù ancora più pesante: “Ci opporremo con tutta la nostra forza a chi vuole impedire alla gente di andare in paradiso”.

Inattesa – nei tempi e nei toni – la controreplica di Rouhani: “Ci sono persone che non hanno davvero niente di meglio da fare. Non hanno una professione, non hanno un lavoro, sono sempre delusi. Non sanno nulla né di religione né di aldilà. E sono sempre preoccupati”. Queste dichiarazioni, rilasciate durante un convegno sull’ambiente, sono state accolte dagli applausi dei presenti. Rouhani ha anche ironizzato sulla difficoltà di certi ambienti religiosi ad accettare i cambiamenti: “Quando a Qom (la città religiosa, ndr) vennero introdotte le docce al posto dei bagni, per alcuni era la fine della religione. Così come quando venne introdotta l’ora legale: prima pregavamo alle 12:15, ora alle 13:15. Cambia qualcosa?”.Tuttavia, va precisato che queste schermaglie sull’abbigliamento femminile, accadono quasi all’inizio di ogni estate. Stavolta sono diversi i toni e sembra esserci un Rouhani intenzionato a non mollare di un millimetro. 

La campagna #Mystealthyfreedom è probabilmente un fenomeno più da esportazione che di reale sensibilizzazione interna. Chi è già contro l’hijab non ha bisogno delle foto su Facebook per convincersi. Chi invece sposa in pieno i canoni morali della Repubblica Islamica, probabilmente su quella pagina non arriverà mai. Nonostante i social media siano al bando, gli iraniani residenti in patria iscritti su Facebook sono almeno 4 milioni (su 75 milioni di abitanti). Molti, ma comunque concentrati nelle aree urbane e negli ambienti medio alti. Non bisogna perciò aspettarsi chissà quale effetto dirompente da parte di una campagna del genere.

È vero che nel Paese si respira un clima più disteso rispetto a pochissimo tempo fa, anche in materia di abbigliamento e di comportamenti in pubblico. All’aeroporto di Teheran, abbiamo visto con i nostri occhi, coppie salutarsi abbracciandosi e persino con qualche casto bacio sulle guance. Scene impensabili appena un anno fa. Ma questo è piuttosto frutto del nuovo clima di apertura verso turisti e imprenditori stranieri. Nel 2014 gli arrivi di turisti stranieri in Iran saranno il triplo rispetto al 2013. Un boom reso possibile anche da una politica meno rigida nella concessione dei visti e aiutato anche da un occhio meno severo sui comportamenti pubblici.

Insomma, ancora una volta, più che la morale poté il business. O almeno così sembra al momento.