L’intifadah rosa sbarca sul web 2.0

03/04/2013
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Le rivoluzioni arabe si sono tinte di rosa. La conferma arriva dal lavoro di quattro donne, geograficamente e professionalmente distanti, che animano un sito e una pagina facebook che offre uno spazio libero e gratuito a donne, ma anche uomini, intenzionate a far sentire la propria voce in uno scenario di cambiamento dagli altalenanti esiti. Intifadat al-mar’ah fi’l-alam al-‘arabi, La rivolta delle donne nel mondo arabo: è questo il nome che hanno dato alla loro lotta. La battaglia delle donne è un vero e proprio “scuotimento, tremore, intervento”, un battaglia che si descrive utilizzando lo stesso termine con il quale i palestinesi descrivono la loro: intifadah.

Questo agorà virtuale è ideato da Yalda Younes, ballerina 34enne residente a Parigi; Diala Haidar, 28enne fisico libanese; Farah Barqawi, palestinese, 27enne operatrice umanitaria ma anche sceneggiatrice teatrale, e Sally Zohney, 27enne cairota impiegata alle Nazioni Unite. Il debutto  arriva all’indomani dalla caduta dell’ex presidente egiziano Hosni Mubarak e del suo omonimo tunisino Zine El-Abidine Ben Ali.

Il clima di euforia che da lì si genera non nasconde per troppo tempo i soprusi e l’incertezza delle donne coinvolte nella primavera del XXI secolo e nell’ottobre 2011 Yalda Younes decide di sfruttare le potenzialità del social media per creare una piattaforma di solidarietà a favore delle donne. Da allora il numero dei “mi piace” provenienti dalle più disparate realtà e comunità del mondo aumenta in maniera esponenziale – circa 20 mila all’inizio della campagna e quasi 105 mila oggi. L’uso della tecnologia digitale contrassegna la nuova espressione del dissenso, che la pagina facebook scandisce, inizialmente, con un meccanismo apparentemente semplice ma dal sicuro impatto: postare una propria foto, con in mano un cartellone recante il seguente slogan “Sono con l’Intifadat al-mar’ah fi’l-alam al-‘arabi perché…”.

Perché “… sono bella e non devo nasconderlo” (Athar, Egitto); perché “… difendere i diritti delle donne non sminuisce la virilità, né è segno di infantilità, ma è solo riconoscere ciò che è bello” (Rami, Tunisi); perché “… non me ne starò in silenzio a sopportare le molestie che ogni giorno devo subire per strada (un cartellone pubblicitario appeso sul cinema di Tangeri, 8 marzo); perché “… non posso continuare ad essere nascosta nell’epoca della rivoluzione” (Layla, Egitto). Un proliferare di “perché” pronti a dar ragione di unanimi sentimenti di sdegno dinanzi alle violenze perpetrate sulle donne anche durante le rivoluzioni.

La rivolta rosa non è però solo questo. Vi sono anche denunce di storie, campagne di sostegno a favore di donne divenute simbolo della lotta, pubblicazioni di vignette pronte a smantellare e ridicolizzare desueti apparati patriarcali. L’iniziativa facebook “Racconta una storia”, lanciata lo scorso 25 novembre in occasione della Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne, è diventata quella che potrebbe definirsi la versione 2.0 dell’essere difensori dei principi fondamentali. Perché la vera novità è questa: un sentimento, varrebbe la pena dire, di “empatia” che collega, con immediatezza e chiarezza un tempo impensabili, le donne in tutto il mondo arabo, alle quali è finalmente data la possibilità di essere ascoltate. Se rivoluzione deve essere, allora deve passare anche attraverso una campagna, una volta per tutte, efficace che garantisca loro libertà di espressione e certezza della pena per coloro i quali lo impediscono.

Del resto la rivoluzione, un termine che in arabo è femminile, non è una pratica nuova alle donne della regione. Basta pensare alle libanesi e alle egiziane che hanno animato la scena politico-culturale a partire dal primo ventennio del XX secolo. Proprio a ridosso della rivoluzione del 1919, ad esempio, il partito egiziano Wafd aveva anche un sezione femminile presieduta da Hudà al-Shahrawi.

Oggi però la rivolta delle donne sbarca sui social media prima che nei partiti e prova a dare un soffio di libertà a chi, come Dana Bakdounis, aveva pubblicato una foto, poi rimossa da facebook, che la ritraeva finalmente col volto scoperto e con un commento: “sono con l’intifadah della donna nel mondo arabo perché per vent’anni mi è stato impedito di sentire il vento sul mio volto e sul mio corpo”; o, ancora, l’intifadah digitale trasporta su un’unica piattaforma immagini di manifestazioni di donne arabe che, contemporaneamente, dallo Yemen alla Mauritania, il 17 febbraio, sono scese in piazza per una protesta globale contro il terrorismo sessuale praticato sulle donne egiziane.

La ventata di novità respirata, negli anni ’50, tra le maquisardes [1] algerine, diventa pacato ottimismo tra le dissidenti intelligenti che, ora in arabo, ora in francese o inglese, si preparano ad un’altra dura battaglia: mobilitare l’opinione pubblica a favore di Zaynab al-Khawaja, la 29enne attivista del Bahrein in carcere, chiusa in un pericoloso sciopero della fame perché le impediscono di vedere la figlia. “Free Zaynab” è l’ultima immagine di copertina scelta dagli amministratori della pagina facebook.

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 [1]Questo termine, indicante le donne in tenuta militare che facevano guerra ai soldati francesi, viene per la prima volta svelato all’opinione pubblica nell’agosto del 1956, quando furono arrestate tre infermiere