Mirages et cheikhs en blanc. Enquête sur la face cachée du Qatar, le coffre-fort de la France

prova

Quando si parla con la seconda moglie dell’emiro del Qatar è bene chiamarla “Sua altezza” e non semplicemente “signora”. Soprattutto se la “signora” in questione è Mozah bint el Missned, una delle donne più influenti del pianeta, secondo Forbes, col portafoglio pieno di petrodollari da investire e l’ambizione di rendere il suo ricco emirato uno dei paesi più all’avanguardia del mondo.

Ma Robert Ménard, fondatore di Reporters sans Frontières, non è un diplomatico. Lo ammette lui stesso nel suo libro Mirages et cheikhs en blanc. Quando si è trovato al cospetto di Shaikha Mozah è venuto subito al nocciolo della sua proposta: finanziare un centro per la libertà dei media nella regione.
Al termine di quell’incontro verrà canzonato dal capo di gabinetto di “sua altezza” per aver usato durante il colloquio un troppo confidenziale “madame”, cosa che a parere del funzionario avrebbe compromesso il buon esito del progetto. La storia poi è andata diversamente.

Potrà sembrare un’inezia, ma questa contraddizione tra forma e sostanza è il denominatore comune di tutte le analisi e le vicende che Robert Ménard fa rivivere a chi legge il suo libro: un percorso d’andata e (brusco) ritorno nel cuore del Golfo Persico per creare il Doha Centre for Media Freedom, un’organizzazione concepita per accogliere giornalisti in fuga, dare supporto legale, medico ed economico agli operatori dei media della regione e promuovere una maggiore apertura da parte dei governi verso la libertà d’espressione, a partire dallo stesso Qatar. Il cortocircuito nasce proprio da qui: se da un lato l’emirato si mette in prima fila per sostenere la libertà di stampa con generose donazioni al Doha Centre, dall’altro accetta molto mal volentieri le critiche verso la sua situazione interna. 

Ma è nello stile e nella missione di Ménard non fare sconti a nessuno, nemmeno al suo generoso ospite. Così dal sito del Doha Centre critica l’arretratezza della legge sui media in Qatar e l’autocensura dei giornalisti locali che barattano il silenzio in cambio di stipendi dorati. Ménard non si ferma qui. Arriva infatti a criticare la vicinanza dell’emiro a dittatori sanguinari come Omar al Bashir; osservazione costatagli attacchi feroci da parte della stampa qatarense e un richiamo personale da parte della bella Shaikha Mozah (“mi domando fin dove ha intenzione di arrivare”, gli avrebbe detto).

Neanche Al-Jazeera viene risparmiata dalle analisi taglienti, a tratti acide, del giornalista francese. Se è vero – scrive Ménard – che il canale di Doha ha ribaltato tutti i paradigmi dell’informazione globale, proponendo un flusso di notizie che per la prima volta si muove da “sud a nord”, è anche vero che Al-Jazeera soffre del “paradosso” qatarense, che tradotto vuol dire: “parla degli affari degli altri, ma evita di parlare di quelli di casa tua”. D’altronde l’amministratore delegato di Al-Jazeera è Sheikn Hamad bin Thamer al Thani, cugino dell’emiro, con una carriera iniziata proprio come responsabile della censura della carta stampa al ministero dell’Informazione. Quando nel ’96 il dicastero “della censura” viene abolito, Hamad bin Thamer al Thani passa alla guida della neonata Al-Jazeera: un potente strumento, tanto utile alla politica estera quanto al rilancio dell’immagine di un emirato appena uscito da un colpo di stato. E se con la sua informazione “libera” Al-Jazeera non esita a “bastonare” tutti, compresi i suoi vicini di casa, la diplomazia del Qatar, al contrario, riesce a imbastire relazioni amichevoli con le categorie più disparate di governi e capi di stato: da Omar al Bashir, appunto, fino a Nicolas Sarkozy. Per Ménard la sintesi della politica estera di Doha è racchiusa in una frase dettagli proprio da Shaikha Mozah durante un colloquio: “Mentre l’emiro fuma sigari offerti da Fidel Castro io sono qui a lavorare con lei alla libertà di stampa”.

Una libertà in nome della quale l’autore non scende a compromessi di nessun tipo. Un approccio forse “suicida” in un paese dove diplomazia e formalismi rappresentano il linguaggio del potere. Nonostante i richiami, più e meno celati, Ménard non ferma i suoi attacchi frontali alla mancanza di libertà d’espressione e alle violazioni dei diritti umani in Qatar. La sua presenza si fa sempre più ingombrante. Anche il suo lavoro di direttore al Doha Centre for Media Freedom si trasforma in una corsa ad ostacoli. Dopo un anno il governo dimezza il budget, o meglio manda la metà dei soldi concordati, mentre Ménard arriva ai ferri corti con la direttrice aggiunta del Centro (una funzionaria nominata dal governo), che non firma le sue richieste d’asilo per giornalisti in fuga da altri paesi. La donna, commenta Ménard, sembrava più interessata “alle sue sedute dal parrucchiere” che ai diritti umani.Anche il potente Hamad bin Thamer al Thani, a capo di Al-Jazeera, ma anche presidente del coniglio d’amministrazione del Doha Centre, comincia a remargli contro: “Il suo unico intento – scrive Ménard – era quello di vederci fallire”. Ed è proprio al Thani, secondo Ménard, la guida occulta di campagne stampa contro il Centro e il suo direttore che lo portano alla fine a dare le sue dimissioni. 

Ménard il pornografo, Ménard l’ipocrita, Ménard l’amico di Satana, erano alcuni degli epiteti affibbiati dai giornali locali al fondatore di Reporters sans Frontières; tutti collegati alla sua attività di denuncia della censura. Il termine “pornografo”, ad esempio, se l’era guadagnato dopo una campagna contro la censura in internet. Il rischio molto concreto, avevo denunciato il Doha Centre, è che dietro il blocco di siti pornografici si celi anche la censura di molti siti politici. Ma per i qatarensi, osserva Ménard, i problemi esistono soltanto se li vedi. Basta voltare la testa dall’altra parte per farli sparire.