La primavera digitale saudita

30/09/2013
manal al sharif

È vero: i sauditi non sono scesi in piazza per dar vita alla propria primavera. Eppure la loro rivoluzione, in qualche modo c’è stata, e non è passata sulle strade ma ha percorso la banda larga. Da quando nel 2009 il WiMax (Worldwide Interoperability for Microwave Access) è stato reso commercialmente disponibile, in Arabia Saudita si è appurata la continua crescita del fenomeno dei social network quale piattaforma per la condivisione e la diffusione di notizie come di stati d’animo, per le quali la net generation mostra una particolare predilezione. Mentre le riviste online non dominano del tutto sul formato cartaceo – nel 2009, su un campione di 355 lettori sauditi intervistati, si evidenziava ancora una certa propensione per i quotidiani offline [1], mostrando un’andatura che sembrerebbe accomunare buona parte dei paesi arabi, tra cui fa eccezione solo l’Egitto – le piattaforme digitali si impongono invece sul panorama multimediale, sancendo alcuni primati nel campo dell’era digitale che sembrano stridere con un contesto socio-culturale che raramente pare predisposto a cedere alla modernità.

Le stime del Center for International Media Assistance parlano chiaro: l’Arabia Saudita gode di primati che rendono il proprio contesto fortemente informatizzato. Dal 2009 si attesta la penetrazione della tv satellitare per il 95 percento della popolazione, segnalando poi un dato ancora più sorprendente che riguarda la diffusione della banda larga, attestata al 37 percento e quella dei telefoni cellulari al 130 percento: sono in realtà un po’ tutti i paesi del Golfo ad essersi mostrati pronti ad adattarsi ai nuovi media, con un dato, quale quello del Qatar, sulla diffusione della banda larga segnata all’84 percento cui fa da contrappunto il sorprendente 7,2 percento egiziano. E, se rivoluzione c’è stata, questa sicuramente è passata attraverso l’uso degli smartphone: uno studio per Google Insights ha dimostrato che l’87 percento degli possessori di smartphone in Arabia Saudita è ricorsa al proprio telefono per collegarsi ai social network più diffusi.

I nuovi media si sono imposti con sorprendente velocità in tutto il mondo arabo, riscuotendo ampio consenso. Così, mentre all’indomani dell’inizio della primavera araba si è assistito ad un proliferare di hashtag quali #Sidibouzid ,#Tunisie, #Jan25, #Egypt, l’Arabia Saudita ha generato un caso a sé, raccogliendo un esorbitante numero di cinguettii quando nel maggio del 2011 è stato pubblicato su Youtube il video che ritraeva la nota attivista Manal al-Sharif alla guida di un’auto. Il coraggioso atto dimostrativo di una donna velata sprezzante del divieto alla guida posto alle donne che ancora vige in Arabia Saudita, è diventato immediatamente virale, scatenando un terreno di discussione che, al di là degli opinabili o condivisibili punti di vista, ha segnato indubbiamente il sorgere di una nuova era. Secondo Al-Arabiya Institute for Studies nel maggio del 2013 Twitter ha registrato più di 165mila followers del caso al-Sharif. Il fenomeno Manal al-Sharif è un esempio di come si possano sfruttare appieno le potenzialità dei social network: non c’è stata solo la campagna lanciata su Facebook “It’s my right to drive” dalla stessa al-Sharif, ma in seguito all’arresto della donna è stata creata anche la pagina Facebook “Siamo tutti Manal al-Sharif” che, rispolverando il titolo di quella “Siamo tutti Khaled Said” nata nel giugno 2010 dopo l’assurda morte del ragazzo egiziano, mostra come i social network garantiscano oggi una capillare propagazione e condivisione di notizie e dibattiti che non ha precedenti.

Le questioni femminili nella regione sono spesso visibili su queste piattaforme virtuali: oltre al citato caso di al-Sharif, secondo uno studio firmato dall’Al-Arabiya Institute for Studies nel giugno 2013, intellettuali variamente impegnate sul fronte della lotta all’emancipazione femminile conterebbero migliaia di seguaci su Twitter. Basta pensare al primato degli oltre 200mila followers per la scrittrice Badriyyah al-Bisher e i 233mila dell’attivista Roqaya al-Muharib. Nel maggio scorso la Dubai School of Government ha pubblicato dei dati piuttosto significativi sullo status dei social network nel mondo arabo: gli oltre 6 milioni di users di Facebook nell’area saudita rappresentano l’11 percento degli utenti dell’intero mondo arabo. Il 20 percento della popolazione saudita utilizza questo social network, concedendo al paese il nono posto tra gli stati arabi per quel che concerne l’uso di Facebook, con un costante aumento degli utenti che solo nel 2012 sono cresciuti di 1,3 milioni: tuttavia, la percentuale degli utenti di sesso femminile si attesta solo al 31%. Le lingue utilizzate? Il 90 percento comunica in arabo, l’8 percento ricorre all’inglese e il restante 2 percento è associato ad altre lingue.

Quanto a Twitter, l’Arabia Saudita rappresenta un caso unico nel mondo arabo, con gli oltre 830mila utenti segnalati solo nel 2012. Quando il principe ereditario Salman ben Abd al-Aziz ha lanciato il suo account, ha raccolto più di 200mila followers dopo il primo tweet. Il primato raggiunto riguarda non solo il rapporto con i paesi arabi: il mondo saudita è infatti pronto a lanciare una sfida globale, con una crescita che supera il 3mila percento dal 2011 al 2012. Ricorrendo poi preferibilmente all’arabo, gli utenti sauditi di Twitter hanno garantito all’arabo la crescita più veloce tra tutte le lingue utilizzate per i “tweets”. Secondo The Social Clinic, a Riyadh è associato poi un altro significativo primato: è l’unica città araba a comparire tra le prime 20 al mondo che usano Twitter, posizionandosi addirittura al decimo posto mondiale per numero di tweet al mese.

Anche Youtube si impone sulla banda larga saudita: ogni giorno vengono guardati più di 90 milioni di video pubblicati sul sito, con una crescita di oltre il 109 percento tra il 2011 e il 2012.

Fonti sia arabe che inglesi si rincorrono mostrando una varietà di dati che mettono in luce i diversi aspetti del social networking nell’area considerata. Curioso il dato sul picco degli utenti che, sia per Twitter che per Facebook, si registrerebbe dopo la preghiera dell’alba, tra le 4 e le 5, con una significativa inversione nel periodo del Ramadan. Il Ramadan gioca un ruolo significativo anche sul tenore dei messaggi “postati”: nel mese sacro diminuiscono i messaggi dai contenuti negativi (non superano il 10 percento), che invece aumentano subito dopo la fine del mese.

Sarebbe tuttavia riduttivo associare all’immagine tanto “informatizzata” di se stessa che l’Arabia Saudita concede al mondo, l’idea di un paese che abbia finalmente abbattuto quelle barriere culturali e sociali che lo separano dalla più vera forma di modernità. L’accesa lotta per i diritti umani passa anch’essa sulla banda larga, con un controllo dall’alto che si manifesta in maniera evidente, con arresti, detenzioni, sospensioni e apparentemente immotivate cancellazioni di post e di siti. Nel dicembre del 2010 sono stati arrestati o trattenuti 6 blogger; nel novembre 2010 vi era stato l’annuncio della prevista messa al bando, per ragioni morali, di Facebook, riattivato poi dopo qualche ora, mentre resta tuttora circondata da un alone di mistero la possibile approvazione ufficiale dei profili del re Abdallah e di altri membri della casa regnante.

La censura è diventata anch’essa moderna: alla velocità di reperimento di informazioni che in qualche modo ledono l’apparato ufficiale corrisponde un’altrettanta rapidità della messa in atto di azioni variamente punitive.

In un’intervista rilasciata lo scorso agosto, il portavoce della sicurezza per il Ministero degli Interni, il generale Mansour al-Turki, ha ammesso l’esistenza di una censura su alcuni social network, volta tuttavia a controllare esclusivamente quegli eventi che sembrerebbero incitare la messa in atto di azioni sovversive contro il sistema. Per al-Turki, il tutto sarebbe monitorato nel pieno rispetto delle leggi contro i reati informatici vigenti nel Regno. Il problema è naturalmente quello di stabilire la natura arbitraria di molti di questi interventi: andrebbero infatti meglio specificati quali sono i limiti di natura religiosa, morale, o sociale che hanno portato alla messa al bando di più di 5mila siti web, segnalati come pornografici, violanti la legge islamica o incitatori all’ateismo. Le dichiarazioni di al-Turki, inoltre, appaiono con sorpresa subito dopo la cattura, per mano del Ministero degli Interni, di due non ben identificati personaggi noti come “Yamani” e “Chadi”, rei di aver utilizzato ben 5 account per la diffusione, sui social network, di idee definite come “terroriste”.

Sorge quindi anche qui la confusione circa la reale definizione dei limiti entro cui muoversi per non essere imputati di reati informatici nel regno saudita. Chissà, infatti, quanto moleste siano state considerate le azioni “virtuali” di personalità come Abd Allah al-Hamid e Mohammed Fahad al-Qahtani che da anni lottano per i diritti umani in Arabia Saudita: le potenzialità di queste piattaforme multimediali non potevano non essere sfruttate anche dai due attivisti, che devono aver tuttavia attentato a quanto stabilito dal sistema per aver subito l’arresto nel marzo del 2012. Se è vero che l’avvento dei social network ha dato la possibilità a milioni di sauditi di esprimere le proprie opinioni, rivoluzionando in tal senso il modo stesso di fare notizia, questa possibilità deve comunque passare attraverso l’imbuto di un rigido sistema di controllo, pronto a intervenire con i mezzi più sofisticati per falsare molti dei contenuti pubblicati dai vari attivisti, stigmatizzando i proprietari di spazi web con l’accusa di essere vicini all’Iran o sostenitori segreti di al-Qaeda.

Quest’ultima denuncia, di cui si fa portavoce l’attivista per i diritti umani Walid Abu al-Khair, non fa che aggiungere qualche sospetto sulla presunta modernità del Regno Saudita, lanciato totalmente nell’era digitale, ma solo se si è politically – e verrebbe da dire anche socially e religiously – correct.

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[1] Arab Advisors Group’s Survey of Internet Use and Online Advertising Consumption and Effectiveness