John Cantlie: da prigioniero a testimonial

19/01/2015
cantlie

La prima volta che John Cantlie apparve sullo schermo con la solita tenuta arancione era da solo e seduto dietro una scrivania. Non era inginocchiato sulla sabbia del deserto, non aveva nessun coltello minaccioso alla tempia, non lasciava trapelare la preoccupazione per la propria situazione, tanto meno la rassegnazione. Già dai primi secondi di quel suo primo video, dovette essere evidente l’atipicità dell’ennesimo ostaggio dell’Isis. Si presentò perfino da solo: “Sono John Cantlie, un giornalista britannico che lavorava con alcuni dei più grandi giornali e riviste del Sunday Times, Sunday Telegraph. Oggi, quasi due anni dopo il mio rapimento molte cose sono cambiate”. Il fotografo 43enne John Cantlie tesse le lodi dell’organizzazione che lo tiene prigioniero dal novembre 2012. Si trovava in Siria al momento del sequestro, avvenuto insieme al collega James Foley, tristemente noto prima di Cantlie per essere stato il primo ostaggio decapitato di fronte alle telecamere dei jihadisti.

Dopo quattro mesi e altri sette video da quel primo messaggio, si potrebbe dire che altro ancora è cambiato. L’ultima apparizione di Cantlie di fronte alle telecamere dell’Al-Hayat Media Centre (canale della propaganda del Califfo che la scorsa settimana ha pubblicato anche il video dei bambino soldato che giustizia due prigionieri) mette in scena la sua evoluzione: da prigioniero a inviato speciale al soldo dei jihadisti. 

Diffuso nei primi giorni del 2015, ma girato a dicembre 2014, “From inside Mosul” è un reportage dalla forma curata che ricalca, nello stile, il format classico dei servizi che tanto piacciono al pubblico occidentale. Cantlie parla con tono pacato e a tratti ironico, guida e cammina per le strade della città irachena che da giugno è nelle mani dell’Isis, presentandola quasi come fosse una meta turistica. “Ai media piace disegnare la vita sotto lo stato islamico come depressa”, lamenta prima di esaltare i colori e le luci di una passeggiata al mercato della città. Altro che la guerra, a Mosul la vita è “business as usual!”. Anzi, forse è pure migliore ora che al posto di Saddam o degli statunitensi c’è l’Isis: questo è il messaggio che Cantlie vuole veicolare, smontando a parole le versioni dei media. “Dicevano che i prezzi dei beni di prima necessità si erano impennati, che le persone non avevano soldi, che la spazzatura si accumula ai bordi delle strade, senza essere raccolta e ci sono circa due ore di elettricità ogni quattro giorni. Beh qua ci sono neon e insegne colorate che sono state accese ben più che per sole due ore negli ultimi quattro giorni.” – dice, citando apertamente quanto pubblicato dal Guardian il 27 ottobre.

Cantlie rischia di passare alla storia come il volto occidentale dell’Isis, attraverso quel “Lend me your ears. Messages from the British Detainee John Cantlie” (Prestatemi orecchio. Messaggi dal prigioniero britannico John Cantlie) che più come una testimonianza si impone come un vero e proprio appuntamento seriale – con tanto di sigla iniziale e formula di chiusura che invitano a non perdere la puntata successiva.

 

“Voi pensate che lo faccia solo perché sono un ostaggio e ho una pistola puntata alla tempia e sono stato costretto, giusto? Beh, è vero sono un ostaggio, questo non posso negarlo. Ma essendo stato abbandonato dal mio governo e essendo il mio destino nelle mani dello stato islamico, non ho niente da perdere. Forse vivrò o forse morirò, ma voglio prendere questa opportunità per portarvi alcuni fatti che voi potete verificare. Fatti che se presi in considerazione, possono aiutare a salvare qualche vita.” Così spiegava nel primo video di “Lend me your ears”, vestito con la veste di Guantanamo e accerchiato dalle pareti anonime del bunker.

Lo scopo delle sue apparizioni è duplice: smentire i media occidentali e accusare i governi di aver lasciato soli gli ostaggi (“Salve, sono John Cantlie, cittadino britannico abbandonato dal mio governo e prigioniero dello Stato Islamico” – è la frase con cui Cantlie accoglie il suo pubblico all’inizio di ogni videomessaggio).

I “fatti” annunciati da Cantlie non sono, per la verità, propriamente tali. Nelle diverse puntate di “Lend me your ears”, le uniche cose verificabili sono i riferimenti alle dichiarazioni ufficiali e alle notizie citate. E anche nel video apparentemente girato a Mosul (il secondo che vede Cantlie fuori dal bunker anonimo e in abiti civili), le inquadrature sono sempre così strette sul volto e sulla figura di Cantlie da non lasciar trasparire alcuna indicazione che possa far partire la verifica del video.

Alla fine, l’importanza delle cronache di Cantlie sta nel non detto. I contenuti, benché densi e critici, comunicano poco rispetto al contenitore. L’esempio più chiaro arriva proprio dal primo “live report” da Kobane, emerso ad ottobre. Allora i veri messaggi trasmessi furono chiari: l’Isis non intendeva più nascondersi, né aveva più paura di uscire allo scoperto. Anzi, semmai aveva voglia di sfoggiare un salto di qualità – non solo in termini di propaganda, ma anche in termini di tecnologia militare, ostentando le immagini girate dalle telecamere sui droni dei jihadisti.