Seppure non siano emersi veri e propri modelli alternativi al neoliberismo sull’onda delle rivoluzioni del 2011, il sistema economico dominante è oggetto di accesi dibattiti nei programmi televisivi dei Paesi in transizione.
Nel caso della Tunisia, l’indignazione di parte dell’opinione pubblica non è stata sufficiente a impedire un nuovo prestito del Fondo Monetario Internazionale (FMI). L’Egitto dei Fratelli Musulmani (2012-2013) ha invece cercato di perseguire una contraddittoria coesistenza tra finanza islamica e negoziati con il FMI, con l’esito comune di mettere a rischio la sovranità politico-economica. Con il ritorno de facto dei militari al potere a giugno del 2013, il Cairo ha congelato invece di declinato il prestito del FMI e ora sventola la bandiera di un’autarchia dal retrogusto nasseriano. Ciononostante, non sono pochi i segnali che fanno presagire un cambiamento di facciata senza adottare politiche sociali sostanzialmente differenti da quelle neoliberiste.
Sukuk: verso un’alternativa islamica?
I sukuk sono considerati l’alternativa halal – quindi permessa – alle obbligazioni, con la differenza che si riferiscono al possesso di beni o imprese e non a debiti, onde evitare l’applicazione degli interessi (riba) proibita dal diritto islamico.
Dal maggio 2013, il governo egiziano è teoricamente autorizzato a emettere sukuk, in seguito a una legge redatta dal governo guidato dai Fratelli Musulmani di Mohammad Mursi e propinata come un toccasana in grado di far risparmiare 200 miliardi di lire egiziane alle casse del tesoro.
Il 18 febbario 2013, Al-Jazeera Mubashir Misr, il canale incentrato sull’Egitto vicino ai Fratelli Musulmani, ha invitato l’esperto di finanza islamica Munzir Qahf a discutere l’argomento. Nelle parole di Qahf, rispetto alle obbligazioni tradizionali, i sukuk offrono ai piccoli risparmiatori il vantaggio di ricevere la garanzia che l’emittente li riacquisterà, oltre al fatto che il costo della locazione (ijara) dei sukuk è noto prima della loro emissione.
L’esperto di finanza islamica concorda però con le obiezioni mosse dal Consiglio dei Grandi Dotti della Moschea di Al-Azhar, la massima autorità del mondo islamico sunnita, sullo scopo dell’emissione dei sukuk, i quali per non essere qualificati come riba dovrebbero sostenere nuovi progetti e non saldare il deficit del bilancio pubblico. In questo modo, non si potrebbero emettere sukuk a beneficio di investitori stranieri su opere pubbliche già esistenti come il Canale di Suez, scongiurando i timori connessi alla legge proposta dal governo Mursi. Uno degli articoli contestati da Al-Azhar era infatti l’articolo 4, il quale, pur proibendo l’emissione di sukuk su beni statali come il Canale di Suez, li ammetteva indirettamente nel caso di investimenti su patrimoni statali.
Molto più decise le critiche dei canali ostili ai Fratelli Musulmani, come OnTv e il suo programma Mubashir Min al-‘Asima (In Diretta dalla Capitale). In questa puntata del 21 gennaio 2013, il conduttore Yusuf al-Husayni paragona i sukuk di Mursi ai sukuk introdotti dal ministro degli investimenti Mahmud Mohiedin con l’intento di “svendere il Paese” sotto il governo Ahmad Nazif (2004-2011). Mohiedin era infatti ricorso ai sukuk per eliminare gli sprechi di un settore pubblico non ritenuto abbastanza produttivo da continuare a ricevere sovvenzioni.
I sukuk del governo Mursi erano del resto più una manovra di facciata che un tentativo di distanziare il Paese dal modello neoliberista: in un comunicato del 21 febbraio 2013, il governo aveva infatti sottolineato come i sukuk non intendessero sostituire “altri strumenti finanziari”, in una chiara dichiarazione di fedeltà al mercato azionario. Si discuteva infatti di sukuk in parallelo ai negoziati per l’elargizione di un nuovo prestito del Fondo Monetario regolato da tassi d’interesse, approvato in linea di principio dal FMI già a novembre del 2012.
Fondo Monetario Internazionale: il rifiuto egiziano e la capitolazione tunisina
Il 13 marzo 2013, una delle emittenti statali egiziane (Al-Ula al-Masriyya) ha trasmesso un riassunto dei pregi del prestito, sottolineando la sua capacità di rafforzare la fiducia degli investitori nel mercato egiziano, saldare parte delle necessità finanziarie dello Stato e ricreare una riserva di valuta straniera.
Cionondimeno, gli evidenti tratti di continuità con l’era Mubarak (1981-2011), quando ben quattro programmi economici supportati dal FMI sortirono risultati disastrosi per le classi più degenti, hanno trovato una cassa di risonanza nei media egiziani.
In questa puntata del 30 ottobre 2012 di al-‘Ashratu Masa’an (Le Dieci di Sera), programma in onda su Dream Tv, si è dedicato spazio alla satira popolare sul prestito FMI. Il tema è una canzone di Yaser al-Manawahli divenuta celebre su YouTube, “Sunduquhu” (Il Suo Fondo), in cui il compositore paragona il prestito al veleno nel miele e canta “Mostrami il mio interesse, o Fondo […] Mostraci come si sollevano le genti delle nazioni libere!” Il video musicale, girato con mezzi di fortuna, mostra uno spaccato delle classi popolari che risentirebbero delle misure di austerity connesse al nuovo prestito. Il presentatore Wa’el al-Ibrashi si rivolge quindi al pubblico: “Ai tempi in cui chi sta ora al potere era all’opposizione, consideravamo il Fondo una forza di occupazione […] Per cosa avremmo fatto la rivoluzione?”
Con il ritorno de facto dell’esercito al potere e la deposizione del governo Mursi, sull’onda delle proteste del 30 giugno 2013, sia i sukuk che il prestito del Fondo sono stati però accantonati, soprattutto grazie agli ingenti fondi ricevuti da Arabia Saudita, Kuwait e Emirati Arabi Uniti, da tempo intenzionati a supportare l’estromissione dei Fratelli Musulmani dal potere.
Sulla stampa statunitense non si sono invece fatte attendere i festeggiamenti per quanto avvenuto un altro paese in transizione post-rivoluzionaria, la Tunisia, in seguito al rilascio della seconda tranche di un prestito FMI il 2 febbraio 2014. Il 4 aprile, il presidente Barack Obama ha quindi annunciato un prestito pari a 500 milioni di dollari, sottolineando come gli Stati Uniti abbiano fatto “un grande investimento nell’assicurarsi il successo dell’esperimento tunisino.”
In un Paese che è ormai giunto al terzo prestito rilasciatogli dal FMI negli ultimi trent’anni, le piattaforme mediatiche concedono spazio a un’ampia gamma di posizioni, che variano dai sostenitori a chi non ha dimenticato i legami tra il Fondo e il regime di Ben Ali (1987-2011): la Tunisia era infatti il fiore all’occhiello del FMI e nel 2008, l’allora direttore Dominique Strauss-Khan l’aveva definita “il migliore modello economico per molti Paesi emergenti,” appena tre anni prima della rivoluzione.
In questa puntata di Hadha al-Masa’ (Questa Sera), trasmessa sulle frequenze di T.N.N. (Tunisian National Network) il 31 gennaio 2014, uno degli artefici dell’intesa con il Fondo, l’ex-ministro delle finanze Elias al-Fakhfakh, la difende adducendo la necessità di attrarre finanziamenti esteri e l’assenza di alternative, oltre a sottolineare l’accresciuto potere contrattuale del governo tunisino, che impedirà al FMI di imporre tagli sui salari del 20%, a differenza di quanto avvenuto in passato.
Tra le voci più critiche emerge invece quella di Nasreddin Sasi, direttore del dipartimento di studi interno all’Unione Generale Tunisina del Lavoro, intervistato il 16 maggio 2013 dai bloggers di Nawaat.org.
Dopo aver ricordato le “politiche economiche disastrose” implementate da Ben Ali sotto le direttive di FMI e Banca Mondiale, Sasi si dice convinto che un aumento dei costi del carburante, parte delle riforme strutturali prescritte dal FMI, finirà solamente per indirizzare il cittadino verso il mercato nero e critica il Fondo per non aver consultato gli attori sociali locali come l’Unione nella pianificazione delle riforme.
L’emittente radiofonica RadioExpress.Fm, attraverso questo editoriale del 21 maggio 2013 di Dalila Bin Mubarak Musaddiq, pone infine l’accento sull’impoverimento del ceto medio tunisino- operai, professori, agricoltori- vale a dire la maggioranza della popolazione, che si vedrà negare dei sussidi vitali con la scusa di non rientrare nelle classi più povere. Ritorna la questione della sovranità sollevata anche dai sukuk egiziani: “con tale convenzione la Tunisia rischia di diventare un territorio colonizzato, giacché la priorità sarà data a capitali e manodopera stranieri,” conclude la conduttrice Musaddiq.
L’Egitto di Sisi: “tutto cambia affinché nulla cambi?”
Per quanto riguarda invece il caso dell’Egitto, che si avvicina alle elezioni presidenziali del 26 maggio e al probabile trionfo dell’ex maresciallo di campo Abdul-Fattah al-Sisi, l’interruzione dei negoziati con il Fondo Monetario potrebbe nutrire delle aspettative in merito a nuovi modelli economici, aspettative peraltro alimentate anche a livello mediatico.
Nello stesso giorno del rifiuto del prestito del FMI, il 17 ottobre 2013, l’ex-ministro dell’economia Fathi Hammam, ospite del programma Hadha al-Sabah (Questa Mattina) sul canale Nile News, ha affermato che il governo egiziano avrebbe proposto al Fondo di negoziare ogni futuro prestito sulla base di una serie di condizioni concordate con “altre istituzioni regionali e internazionali”. Hammam sostiene pertanto che l’Egitto si trovi ora nella posizione di rivoluzionare le modalità di elargizione dei prestiti.
A fronte di ciò, risultano contraddittori gli elogi di Hammam di un nuovo modello orientato verso l’autarchia e le grandi opere ispirate all’era nasseriana (1952-70): si parla di “produrre riserve di capitali ricorrendo alla forza lavoro egiziana, in modo da poter rinunciare ai prestiti dall’estero.” Hammam rilancia inoltre il progetto Toshka, un piano di bonifica di mezzo milione di acri nel deserto, basato sull’utilizzo delle acque del lago artificiale Nasser nel sud del Paese all’altezza della Diga di Assuan, nonché una delle opere incompiute più dispendiose e criticate dell’era Mubarak.
Al di là delle “vesti” nasseriane di alcune proposte, le fondamenta della diseguaglianza sociale propria dell’era Mubarak non vengono intaccate da politiche economiche innovative.
A settembre del 2013, lo stipendio minimo mensile della maggioranza dei dipendenti pubblici è stato portato da 700 (120$) a 1200 lire (200$) da una risoluzione entrata in vigore il primo gennaio del 2014, adempiendo così a una sentenza emessa nel lontano 2009 da un tribunale egiziano che imponeva al governo la fissazione di un salario minimo equivalente. Si è pertanto deciso di ignorare quanto siano aumentati da allora i tassi d’inflazione e quanto sia crollato il valore della valuta egiziana. La definizione dei salari minimi ha conseguentemente innescato numerose proteste.
In questa puntata del 25 ottobre 2013 del programma Misr Kull Yom (Egitto Tutti i Giorni), in onda sul canale Mahwar, è lo stesso ministro dello sviluppo amministrativo Hani Mahmud ad ammettere come l’aumento non giovi a chi lavora da anni e percepisce già uno stipendio leggermente più alto di 1200 lire. In Egitto, come nella Tunisia “ostaggio” del FMI, il rischio è quello dell’impoverimento di un ceto medio ignorato dallo stato sociale.
In ambito agricolo, a dispetto delle promesse fatte da Mursi nel 2012 di cancellare i debiti degli agricoltori inferiori alle 10.000 lire, i contadini rimangono “strozzati” dai prestiti degli istituti di credito, mentre soltanto i grandi proprietari terrieri possono fare a meno di indebitarsi: a marzo del 2014, il presidente della Banca Pubblica per lo Sviluppo e il Credito Agricolo in Egitto, Atia Salem, ha dichiarato in un’intervista al sito inglese di Al-Ahram che “cancellare i debiti degli agricoltori significherebbe il collasso della banca, mentre noi miriamo alla redditività.”
Per chi si è illuso che il rifiuto del prestito FMI possa tradursi in una serie di riforme economiche più attente ai costi sociali, suonano inoltre come un campanello d’allarme le dichiarazioni a porte chiuse di al-Sisi, trasmesse da Al-Jazeera Mubashir Misr tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014: in queste ultime, Sisi spende elogi per alcune non meglio precisate politiche d’austerity tedesche (“la Germania tagliò gli stipendi del 50% e la gente lo accettò”) e annuncia una mano pesantissima sulle sovvenzioni statali (“Siete pronti a tollerare che vi tolga tutti i sussidi statali in una volta?”). Il maresciallo emerge inoltre come un ammiratore dei tagli sui sussidi alimentari decisi dal presidente Anwar Sadat nel 1977, in linea con le direttive di FMI e Banca Mondiale, che innescarono la cosiddetta “rivolta del pane”. Detto ciò, Sisi, nel corso della prima intervista della sua campagna elettorale, ha annunciato che, almeno per ora, i sussidi non si toccano.
In conclusione, pur essendo troppo presto per constatare l’emersione di un vero e proprio modello economico alternativo al neoliberismo, occorre riconoscere alle piattaforme mediatiche egiziane e tunisine il merito di aver creato uno spazio di dibattito sull’argomento inimmaginabile prima delle rivoluzioni del 2011.