Emirati Arabi: il dissenso è un cybercrime

10/01/2013
cybercrimes

La libertà di espressione negli Emirati Arabi Uniti ha subito un nuovo colpo. In nome del cybercrime rischia di aumentare la morsa della censura. A novembre, un decreto della Presidenza Federale degli Emirati ha infatti introdotto una serie di cambiamenti alla normativa locale sui crimini informatici. Le modifiche apportate includono nella categoria dei cybercrime la pubblicazione di contenuti che offendano o deridano le istituzioni governative.

Con cybercrime, o crimine informatico, si intende qualsiasi tipo di violazione della legge perpetrabile tramite l’uso di internet. Questa tipologia di reato esiste anche in Italia da quando, nel ’93 e nel 2008, il codice penale prevede e sanziona il furto e la divulgazione di informazioni riservate, l’accesso non autorizzato, la diffusione di virus e la frode informatica. Altri reati sono quelli legati alla pedopornografia, all’estorsione, alla diffamazione e alle attività spionistiche o terroristiche. Più cresce il numero di persone connesse, più aumenta il numero di criminali informatici che ne approfitteranno in uno dei tanti modi possibili.

Nei paesi arabi del Golfo naviga, in media, un’abbondante maggioranza della popolazione. Secondo i dati forniti dall’Unione Internazionale delle Comunicazioni (ITU) nel 2011, negli Emirati Arabi Uniti il 70 percento della popolazione è online (in Italia il 56,8). Un sondaggio svolto dal sito Bayt.com, nello stesso anno ha evidenziato che il 70 percento degli internauti degli Emirati resta connesso almeno tre ore al giorno.

Negli ultimi anni la consapevolezza dei rischi dei crimini informatici è cresciuta. Secondo il Norton Cybercrime Report del 2012, il 46 percento degli utenti virtuali negli Emirati è vittima di cybercrime. Ad accorgersene sono stati anche i media locali che mettono in guardia sulla relativa facilità di hacking nel paese.

Per difendersi da questi attacchi, le autorità hanno quindi iniziato a potenziare le proprie capacità di controllo e contrasto. In questa cornice si è diffusa l’idea che la legge del 2006 che ha regolato fino ad ora il crimine informatico andasse migliorata e aggiornata. Il 12 novembre del 2012 la Presidenza Federale degli Emirati ha quindi emanato un decreto che colma le lacune di quella norma.

Alcuni nuovi articoli hanno però provocato aspre critiche in tutto il mondo. Un report pubblicato da Human Rights Watch denuncia infatti importanti restrizioni alla libertà di espressione e di associazione. Chi su internet “deride o danneggia la reputazione” delle istituzioni o delle alte cariche, chi in rete si impegna per un diverso sistema di governo, o semplicemente ne invoca la creazione, chi organizza online marce o azioni di protesta verrà punito con la galera sulla base di quegli articoli. Un altro articolo vieta poi di trasmettere via internet ad “organizzazioni, enti o istituzioni” informazioni “scorrette, inaccurate o fuorvianti” che mettano in cattiva luce lo Stato o ne danneggino gli interessi.

Dietro l’etichetta del cybercrime sembra quindi nascondersi un’ulteriore repressione governativa. La nuova legislazione si affianca infatti a leggi già restrittive sui media, come l’articolo 176 del codice penale degli Emirati sull’offesa pubblica alle alte cariche, e a un controllo di fatto già esteso alla comunicazione online. 

Crimine informatico a parte, a preoccupare sono le frequenti violazioni dei diritti umani. A ottobre, una risoluzione del Parlamento Europeo ha segnalato una tendenza preoccupante. Il documento, che ha scatenato l’indignazione di Abu Dhabi, fa riferimento alle probabili torture e alle vessazioni subite da 64 prigionieri politici – per lo più attivisti locali, magistrati e avvocati – e alle violazioni dei diritti umani generalmente perpetrate nel paese. La risoluzione afferma espressamente che negli Emirati “la sicurezza nazionale è un pretesto per una repressione dell’attivismo pacifico, designata per soffocare la richiesta di riforme”.

La principale organizzazione di opposizione al governo è Al-Islah, un movimento nonviolento di ispirazione islamista. Sulla base di questo orientamento religioso, il governo di Abu Dhabi ha giustificato come lotta all’integralismo gli arresti dei 64 attivisti, tutti legati in qualche modo a questa organizzazione. Ahmed Mansur è uno dei cinque attivisti arrestati nell’aprile del 2011 per aver richiesto pubblicamente riforme democratiche. Secondo le autorità locali, Mansur e altri avrebbero cospirato contro la sicurezza dello stato attraverso il forum online UAE Hewar. Su questo sito, successivamente cancellato, i condannati, infine graziati, criticavano il governo senza incitare alla violenza. A luglio, Mansur ha denunciato di aver subito un attacco informatico. Uno spyware, un software spia, gli è stato inviato da anonimi per tenere sotto controllo il suo computer. Altri arresti sono avvenuti nel corso del 2012 sulla base di attività online: un attivista è stato arrestato a marzo per aver criticato su Twitter le forze di sicurezza del paese.

Più che sorprendere, le ultime restrizioni sembrano quindi consacrare una già esistente repressione del dissenso online, in un paese dove internet, e i social media in particolare, sono strumenti largamente utilizzati. A confermarlo è stato anche l’arresto del blogger diciottenne Mohammed Salem al-Zumer, fermato il 5 dicembre a Sharjah dopo aver espresso su internet il suo sostegno ai prigionieri politici degli Emirati. Il 14 dicembre, proprio negli Emirati si è conclusa la Conferenza Mondiale sulle Comunicazioni Internazionali, WCIT. All’incontro soltanto 89 paesi su 144 hanno sottoscritto un nuovo accordo sulle telecomunicazioni. 

Gli Emirati – così come Russia, Cina, Iran, Arabia Saudita, Cuba, Brasile e Turchia – sono tra questi. Motivo di scontro con le altre 55 delegazioni è stato, guarda caso, il rafforzamento del ruolo dei governi per le questioni legate a internet. Tra i 55 paesi che si sono rifiutati di firmare il trattato ci sono gli USA, l’India, il Canada, il Regno Unito, l’Italia, la Germania e gli altri paesi UE che hanno partecipato. Il trattato prevede un maggiore coinvolgimento dei governi nella regolamentazione di internet. I paesi non firmatari accusano i nuovi accordi di favorire la censura da parte dei governi, additandoli come minaccia alla libertà della rete.