Il Doha Centre for Media Freedom è un’organizzazione nata nel 2008 col sostegno politico e finanziario – 4 milioni di dollari il budget annuo – di Mozah bint el Misnid, la potente moglie dell’emiro del Qatar. Obiettivo: assistere giornalisti in pericolo di vita e promuovere la libertà dei media dal cuore del Golfo Persico. Da due anni alla sua guida c’è Jan Keulen, olandese, classe 1950 e una vita passata a fare il corrispondente in Medio Oriente per il quotidiano Volkskrant. Il suo non è certo un compito facile, perché prima di combattere per la libertà dei giornalisti e dei media nel mondo, il Qatar, la patria di Al-Jazeera, si trova a combattere contro le sue stesse contraddizioni: una legge sulla stampa vecchia di quarant’anni, un’attitudine spiccata all’autocensura da parte dei media locali e una chiusura nei confronti della libertà d’espressione da parte delle frange più conservatrici del paese.
Non a caso il precedente direttore del Doha Centre, Robert Ménard, fondatore di Reporters sans Frontières, fu accusato dalla stampa qatarina di aver invitato a Doha “Satana in persona”, ovvero Flemming Rose, il direttore del giornale danese Jyllands-Posten che pubblicò nel 2005 le tanto vituperate vignette satiriche sul profeta Maometto. Vicenda smentita dallo stesso Ménard nel suo libro “Mirages et Cheikhs en Blanc”. Secondo il giornalista francese quello sarebbe stato solo un pretesto per disfarsi di una presenza troppo scomoda per alcuni elementi dell’establishment del Paese. Nel 2009, infatti, a poco più di un anno dall’apertura del Doha Centre, Ménard diede le sue dimissioni.
A giudicare dalla testimonianza di Robert Ménard, dirigere un’organizzazione per la libertà dei media in Qatar richiede la capacità di scendere a compromessi.
Di certo richiede diplomazia, capacità di capire il posto in cui ti trovi e la cultura con la quale ti confronti. La parola compromesso non mi piace perché vorrebbe dire andare contro i miei principi e le mie idee di autonomia e libertà d’espressione. Io e Ménard abbiamo di certo due diverse personalità e anche due diversi backgroud. La mia storia personale e professionale è legata in gran parte al Medio Oriente, dove ho vissuto e lavorato per quasi trent’anni, prima come corrispondente e poi come formatore di giornalisti. Quando sono arrivato al Doha Centre non mi aspettavo che questa parte del mondo sarebbe diventata d’un tratto il paradiso della libertà di stampa, ed è esattamente il motivo per cui sono qui: per contribuire a mettere in atto un processo di cambiamento. Naturalmente c’è chi non condivide la nostra attività. Solo per darle un esempio, dopo il mio insediamento al Doha Centre, io e il mio staff siamo stati oggetto di una campagna denigratoria da parte di un quotidiano locale che mi raffigurava, con tanto di vignette, come lo straniero di turno che viene qui nel Golfo per approfittare di salari d’oro e una vita di lusso. In ogni caso trovo molto coraggiosa l’iniziativa di questo governo a sostegno della libertà d’espressione, a conferma che il Qatar è un paese unico nella regione.
Quali sono gli obiettivi e le principali attività del Doha Centre?
Libertà dell’informazione e qualità dell’informazione sono i due principali temi attorno ai quali lavora il Centro. In primo luogo cerchiamo di prenderci cura di giornalisti in difficoltà proprio perché hanno tentato di fare fino in fondo il loro lavoro. Il Centro ha un dipartimento che si occupa di fornire supporto ai singoli giornalisti, che sia di tipo medico o legale, ma può riguardare anche un aiuto a trovargli una nuova collocazione per permettergli di sfuggire a persecuzioni o fornirgli nuovi equipaggiamenti, come telecamere e macchine fotografiche, andate distrutte o finite sotto sequestro. Basta pensare al caso dei cameraman rimasti feriti nella striscia di Gaza durante i raid israeliani, o giornalisti che hanno subito violenze e necessitano di cure psicologiche.
D’altro canto facciamo informazione cercando di diffondere la conoscenza sullo stato delle violazioni della libertà di stampa. Lo facciamo attraverso il nostro sito, ma anche con pubblicazioni, eventi e dibattiti. Inoltre svolgiamo corsi di formazione ai giornalisti, che vanno dalla sicurezza nei contesti di guerra fino al reportage d’inchiesta. Facciamo attività di training sia all’interno del paese che in altri luoghi come nella Striscia di Gaza, in Libia, in Iraq e presto anche in Yemen.
Quali sono i vantaggi di essere collocati in Medio Oriente?
Il vantaggio è che possiamo considerarci a tutti gli effetti un’organizzazione regionale. A parte me e qualche altro collaboratore, tutto lo staff è arabofono e questo ci permette di agire nella regione senza mediazioni. Abbiamo inoltre avviato in Qatar un programma di “alfabetizzazione mediatica” perché siamo convinti che la libertà di stampa non dipenda soltanto dalla politica o dai giornalisti, ma sia legata anche al pubblico. In paesi come il Qatar, sommersi da computer e smartphone è importante insegnare a selezionare le informazioni e diffondere valori come la libertà di stampa. Lo facciamo direttamente nelle scuole con corsi per alunni e insegnanti. Il nostro obiettivo finale è quello di includere l’alfabetizzazione mediatica nei programmi scolastici del Qatar e stiamo avviando lo stesso lavoro in Bahrein, Giordania ed Egitto. Importante è far nascere uno spirito critico nelle persone e metterli in grado di formarsi un’opinione e agire in maniera autonoma.
Come si colloca a livello regionale il Qatar sul piano della libertà d’informazione?
Se guardiamo indietro agli ultimi vent’anni, penso che tra i sei paesi del Golfo, il Kuwait e il Bahrein siano quelli che hanno fatto i progressi più significativi. Il Bahrein è stato attraversato da rivolte sull’onda della Primavera Araba che però hanno sostanzialmente fallito. Questo ha paradossalmente avuto delle conseguenze molto negative per i media locali: molti giornalisti sono stati costretti all’esilio, alcune testate hanno dovuto chiudere e diversi blogger e citizen journalist sono stati messi in galera. Se si guardano agli indici internazionali sulla libertà d’informazione, il Qatar non va molto bene. Questo è dovuto in parte all’assenza di un quadro legale chiaro: la legge sui media risale agli anni ’70, quando le televisioni satellitari e internet erano ancora sconosciuti. Certo l’emiro ha abolito la censura preventiva e il Ministero dell’Infomazione e al momento non abbiamo in carcere giornalisti o pubblicazioni messe al bando. Detto questo, in Qatar tra i giornalisti locali esiste il fenomeno dell’autocensura.
Come vengono finanziati i media locali: esiste un mercato pubblicitario o sono tutti legati al governo?
Per quanto riguarda radio e televisioni sono tutte di proprietà del governo, inclusa Al- Jazeera, e il governo di questo paese è tra i più ricchi del mondo, cosa che inevitabilmente si ripercuote sull’assetto e gli equilibri interni dei suoi mezzi d’informazione. Per quanto riguarda la carta stampata, abbiamo tre case editrici private che pubblicano sette quotidiani di cui tre in lingua inglese e, a giudicare dal numero di inserzioni e dalle carte patinate utilizzate, si avverte che c’è un mercato pubblicitario fiorente e redditizio, il che non è sempre positivo dal punto di vista della qualità giornalistica.
Vale a dire?
Vede, la maggior parte dei lavoratori nel settore dei media (parlo di una percentuale di circa il 95 per cento), inclusi fotografi e traduttori, sono stranieri. Qui in Qatar i loro stipendi sono molto più alti di quanto non lo sarebbero nei loro paesi d’origine: parliamo di numerosi giornalisti provenienti da paesi come India, Bangladesh, Sudan. Si tratta di persone poco coinvolte negli affari locali e bene attente a non perdere la loro posizione e il loro salario. Alcuni sentono la frustrazione di non poter fare davvero fino in fondo il loro mestiere, ma non ci sono incentivi in tal senso. E poi, vista l’assenza di una legge chiara rimane sempre aperta la questione di cosa è permesso dire e cosa no.
E forse c’è anche il fatto che a uno straniero in Qatar può essere revocato il visto in qualsiasi momento senza dover fornire molte giustificazioni…
Direi che in Qatar, come negli altri paesi del Golfo c’è questo fenomeno. Mettiamola così: la protezione legale nei confronti degli stranieri potrebbe essere di certo migliorata. A questo si aggiunge il fatto che nei media, così come nelle altre professioni, non esiste un sindacato o qualunque altra forma di associazionismo. I giornalisti quindi sono soli a gestire il loro rapporto col datore di lavoro e col governo. Questi sono tutti elementi che contribuiscono ad acuire il fenomeno dall’autocensura.
Quindi la stampa locale non potrà mai trattare questioni delicate come ad esempio la presenza della più grande base militare americana nella regione o la condizione dei lavoratori immigrati del settore edilizio…
Quando parlo di autocensura mi riferisco proprio a questioni del genere. Ricordo che l’anno scorso ero a una conferenza stampa di Human Rights Watch in cui venne presentato un report sulla situazione dei lavoratori domestici in Qatar. Si trattava di un rapporto che denunciava apertamente la condizione di questi lavoratori. I giornalisti locali erano rimasti spiazzati dal fatto di essere stati invitai alla presentazione di un rapporto che criticava apertamente le autorità del Paese. Si chiedevano cosa fare: pubblicare o non pubblicare la notizia?
E alla fine come si sono comportati?
Alla fine solo Al-Jazeera ha coperto l’evento in maniera più estesa. Quanto alle altre testate, alcune hanno ignorato questo report, mentre altre lo hanno riportato solo in maniera molto sommaria. La cosa che mi ha divertito di più è stato l’articolo in cui un giornalista del Peninsula, un quotidiano locale in lingua inglese, confessava che dopo tanti anni in Qatar si trovava per la prima volta a partecipare a una conferenza di questo tipo e, con onestà disarmante, ammetteva di non sapere che cosa fare: riportare le critiche contenute in quel rapporto oppure no? Questo la dice lunga sul clima che regna tra i giornalisti locali.
Al-Jazeera è il canale più visto nel mondo arabo, lo è anche nella sua patria d’origine?
Quando parliamo di Al-Jazeera, parliamo di un impero mediatico che include non solo il segmento all news, ma anche documentari, sport, intrattenimento e canali per l’infanzia. Il Qatar naturalmente ne va fiero, ed è molto seguito come in tutti gli altri paesi arabi, anche perché la gran parte degli immigrati del paese è arabofona. Il paradosso è che, se si compara la qualità di Al-Jazeera con quella delle televisioni locali c’è un divario enorme. I canali locali sono antiquati e molto poco sofisticati dal punto di vista di contenuti e immagini. Adesso c’è una spinta verso il rinnovamento anche della tv locale, soprattutto col nuovo canale Al-Rayyan, interamente dedicato alla cultura e agli affari interni del Paese, ma con un approccio più moderno. Certo anche qui c’è una contraddizione: dietro Al-Rayyan ci sono in gran parte giornalisti libanesi che hanno il compito di proporre un prodotto che sia “autenticamente” qatarino.
Quando Al-Jazeera si trova a commentare l’operato del governo del suo paese si innesca lo stesso meccanismo di autocensura vissuto dalla stampa locale?
Non dobbiamo mai dimenticare che Al-Jazeera è stata creata ed è finanziata dal governo. Si parla a tutti gli effetti un’azienda governativa. La sua politica è stata fin dall’inizio quella di coprire sempre e ovunque gli eventi di tutto il mondo, eccetto quelli di casa propria. Ma penso che questo discorso valga un po’ meno per Al-Jazeera English che ogni tanto si spinge a parlare di affari interni. Per Al-Jazeera in lingua araba, invece, l’approccio è quello di tralasciare gli affari interni del Qatar.
La relazione tra Islam e libertà d’espressione è un’altro dei nodi critici, soprattutto in paesi di tradizione wahabita…
Il Qatar è un paese wahabita, ma di certo non vediamo lo stesso tipo di costrizioni presenti in altri stati wahabiti come l’Arabia Saudita: le donne lavorano e guidano l’auto, non esiste polizia religiosa, ed è consentito comprare alcol e carne di maiale. E quando parliamo di blogger perseguitati per blasfemia, non ho mai sentito di casi riferiti al Qatar. Certo abbiamo un altro tipo di fenomeno: la leadership del Qatar è per molti aspetti aperta all’Occidente, ma c’è un segmento della popolazione che resta critica verso questo tipo di approccio, ed è ostile alla presenza massiccia di stranieri che ricoprono posizioni di prestigio nel loro paese. Anche rispetto alla libertà d’espressione ci sono persone che pensano di non averne bisogno qui in Qatar e altri si spingono a considerarla un’invenzione occidentale! Se questo atteggiamento si può considerare “wahabita” non saprei. Penso che la preoccupazione principale della popolazione sia legata alla perdita (e alla costruzione) di un’identità. L’Islam rappresenta di certo una grossa parte di questa identità.
Qual è il livello di censura internet in Qatar?
La censura internet esiste, soprattutto per i siti pornografici e alcuni siti politici. Se navighi attraverso Qtel, il principale provider internet del paese, a volte ti apparirà sullo schermo una finestra di dialogo che ti dice: “il sito non è accessibile da questo paese” e aggiunge che se contesti questo divieto puoi fare un reclamo a un indirizzo mail. Ma onestamente non ho mai sentito di qualcuno che dopo il reclamo abbia avuto accesso a un sito vietato. Il web rimane comunque uno spazio meno controllato e più aperto degli altri media. Per fare un esempio, c’è il caso di un poeta qatarino che ha ricevuto una condanna all’ergastolo per aver istigato la popolazione a rovesciare il governo dell’emiro attraverso una sua poesia. La cosa è completamente ignorata dai media tradizionali, ma è ampiamente dibattuta su internet.
Anche qui è arrivata l’eco della Primavera Araba?
Non direi. Il Qatar ha una situazione molto particolare: la popolazione autoctona è di circa 250 mila unità su un totale di un milione e seicentomila abitanti. Si tratta di una minoranza che però è molto ricca e influente: non dimentichiamo che i cittadini del Qatar hanno il reddito pro capite più alto al mondo (oltre centomila dollari), cosa che gli garantisce un enorme benessere. Inoltre non esistono lotte sindacali come in Oman, oppure tensioni settarie come in Bahrein o Arabia Saudita, né esiste una tradizione politica come in Kuwait, e questo ha di certo contribuito a non provocare manifestazioni o movimenti di alcun tipo. D’altronde il governo del Qatar ha ufficialmente sostenuto il rovesciamento dei regimi di Egitto, Tunisia e Libia, non solo attraverso Al-Jazeera, ma anche con altre forme di sostegno ai nuovi governi.