Al-Qaeda nel Levante e in Iraq: tra strumentalizzazione ed efficacia comunicativa

12/02/2014
isis

L’ascesa in Siria di due formazioni al-qaediste, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS l’acronimo in inglese, Da’ish quello in arabo) e Jabhat al-Nusra (Il Fronte del Supporto), e le conseguenti ripercussioni sulla sicurezza del Libano e dell’Iraq hanno riportato lo spauracchio di al-Qaeda alla ribalta mediatica nei tre Paesi. La minaccia terroristica si presta alle strumentalizzazioni politiche: accostare i rivali all’insurrezionalismo islamico significa demonizzarli e marginalizzarne le rivendicazioni originarie. Lontano dall’ipocrisia dei programmi elettorali, la militanza al-qaedista si presenta dal suo canto come unica fonte di salvezza degli oppressi. Senza alcuna necessità di velare le connotazioni confessionali, a differenza degli attori istituzionali, il messaggio al-qaedista offre una valvola di sfogo riservata ai sunniti emarginati di questi tre Paesi, i quali condividono la convinzione di essere stati abbandonati dallo Stato e dalla comunità internazionale.


Noi non siamo come loro: Al-Qaeda e il riscatto degli ultimi

Le forme più radicali del jihadismo sunnita maturate in Iraq hanno trovato nuova linfa vitale in Siria e uno sbocco potenziale in Libano. Osservare i punti di forza del messaggio degli al-qaedisti attivi nel contesto siriano può pertanto aiutare a comprendere i successi del loro proselitismo. In un video pro-ISIS diffuso su YouTube in data 5 gennaio 2014, il mujahid viene presentato come ultima speranza dei sunniti siriani, abbandonati sia dai governi che da quei dotti islamici asserviti all’inazione dell’Occidente. Sicché il mufti dell’Arabia Saudita, Abdul-‘Aziz Al-Shaykh, il quale ha definito l’adescamento dei giovani musulmani perché partano per il jihad in Siria un “tradimento dell’Umma [la comunità dei fedeli]”, viene accusato di essere al servizio dei “collaborazionisti” (Sahawat è il termine utilizzato, in riferimento alle milizie sunnite irachene addestrate dagli Usa per combattere contro al-Qaeda). Il video agisce sulle corde più sensibili dell’opinione pubblica musulmana: immagini di bambini uccisi da armamenti chimici, donne costrette a imbracciare le armi a causa del gran numero di uomini massacrati.

Nella puntata di “Liqa’ al-Yawm” (L’Incontro di Oggi) del 19 dicembre 2013, Taysir ‘Alwani di Al-Jazeera ha realizzato una lunga intervista con Abu Mohammad al-Jawlani, l’emiro di Jabhat al-Nusra. Il gruppo è senza dubbio la formazione al-qaedista più popolare in Siria, contando sulla militanza di meno stranieri rispetto a ISIS.

Il leader della Nusra articola innanzitutto la sua captatio benevolentiae nei confronti dei siriani, collocando il suo movimento sul cammino della militanza jihadista repressa a Hama nel 1982.

A tre anni dallo scoppio della rivoluzione, le parole di al-Jawlani rispecchiano inoltre la visione di molti siriani, per i quali la paralisi dell’Occidente equivale a un sostegno per il regime di Asad: “La comunità internazionale ha offerto rose ai sunniti siriani, mentre li accoltellava alle spalle”. Secondo il leader della Nusra, la popolarità dei mujahidin cresce in modo direttamente proporzionale alla connivenza tra comunità internazionale e regime siriano, risvegliando finalmente le coscienze sunnite contro i despoti miscredenti scelti dall’Occidente a tutela dei confini israeliani, vale a dire i “disertori” (rawafid) sciiti e alauiti. Facendosi megafono di numerosi siriani rimasti nelle aree più devastate del Paese, al-Jawlani liquida i negoziati tenutisi a Ginevra tra 22 e il 31 gennaio come un compromesso inaccettabile, un tentativo di sostituire Bashar al-Asad con un suo collaboratore, sul modello dell’accordo raggiunto in Yemen per la deposizione di ‘Ali ‘Abdullah Saleh.

Siria: Ve l’avevamo detto che erano tutti terroristi

Nell’ottica del regime siriano, l’ascesa di al-Qaeda è giunta invece alla vigilia dei colloqui di Ginevra, a sottolineare come la permanenza di Bashar al-Asad sia negli interessi della lotta al terrorismo dell’Occidente.

Secondo un servizio datato 1 dicembre 2013 dell’emittente statale Al-Ikhbariya, i crimini di ISIS in Siria e in Iraq sono da imputare ai “mezzi uomini” della casa regnante saudita, che starebbero puntando tutto su al-Qaeda dopo essere stati isolati dal riavvicinamento tra Iran e Usa suggellato dall’accordo sul nucleare del 24 novembre 2013).

La visione di Damasco coincide con quella delle emittenti sciite filo-governative irachene. Nel documentario “Al-Imarat al-Sawda’ (L’Emirato Nero)”, trasmesso il 20 novembre da Al-Ahd, canale dell’ex-milizia ‘Asa’ib Ahl al-Haqq (La Lega dei Giusti), l’analista Ahmad al-Hatif adduce l’espulsione di Al-Qaeda quale fine legittimo dell’offensiva lanciata dal regime siriano nella Ghuta, la piana ad est di Damasco, ignorando la presenza limitata di gruppi al-qaedisti in questa regione. L’intento è lo stesso del regime siriano, di presentare la composita galassia dei ribelli come un monolite al-qaedista.

Dal gennaio del 2014, con il lancio delle operazioni militari culminate nella riconquista di Fallujah, la città irachena della provincia occidentale di Anbar caduta nelle mani di ISIS , l’industria propagandistica di Damasco ha trovato un alleato ancora più solido in Bagdad. “La responsabilità di ciò che è successo è anche di quei Paesi che hanno armato l’opposizione siriana, perché ora queste armi vengono usate in Iraq,” afferma ‘Ali al-Shalah, deputato della coalizione guidata dal premier iracheno Nouri al-Maliki, nell’edizione dell’8 gennaio del programma “Hadith al-Watan (Il Discorso della Nazione)”, in onda sull’emittente libanese filo-siriana Al-Mayadeen.

A dispetto della tinta omogenea utilizzata da Damasco e Baghdad nel dipingere i ribelli siriani, è un dato di fatto come ISIS venga ormai identificato come un corpo estraneo all’opposizione sia dalle sue componenti laiche che da quelle islamiche. Il gruppo al-qaedista si è infatti reso protagonista di una serie interminabile di esecuzioni sommarie nelle regioni controllate dagli insorti. Il 10 dicembre 2013, sulle frequenze del canale Shadaa al-Hurria (Il Canto della Libertà), persino lo sceicco salafita siriano ‘Adnan al-‘Ar’ur si è mostrato fortemente critico, denunciando l’illegittimità delle sentenze emesse da ISIS, definito “una fazione rappresentante il 5% dei siriani e non uno Stato.” Il 3 gennaio 2014, la maggiore formazione islamica siriana, al-Jabhat al-Islamiyya (il Fronte Islamico), ha infine dichiarato guerra a ISIS , colpevole di aver ucciso Abu Rayyan, uno dei comandanti della brigata Ahrar as-Sham (I Liberi del Levante).

Lo sguardo degli attivisti laici siriani sul fenomeno ISIS è sintetizzato da “Kif tasna’u al-Da’ishi (Come si Produce un Militante di ISIS)“, cortometraggio animato satirico diffuso il 23 gennaio dal collettivo di artisti arabi Kharabeesh (Scarabocchi): il combattente locale di ISIS viene rappresentato come un pupazzo agli ordini di un fantoccio straniero, l’emiro, pilotato delle agenzie dell’intelligence internazionali. Nella didascalia del video, si ironizza su come la nuova ondata destabilizzante al-qaedista “susciti lo stupore degli osservatori del Medio Oriente,” pur giungendo alle porte di Ginevra II.

Iraq: Ve l’avevamo detto che erano tutti terroristi pt. II

In Iraq, il taglio dei programmi che celebrano il dispiegamento delle truppe in Anbar in funzione anti-qaedista è molto simile alla propaganda, che ha accompagnato le operazioni dell’esercito e delle forze di sicurezza siriane durante la rivoluzione: musica trionfale, confessioni intimorite dei “ratti” (jirdhan) al-qaedisti – come li definisce in uno speciale del 29 dicembre 2013 il canale Al-Afaq, di proprietà del partito di Maliki, ad-Da’wat al-Islamiyya (Il Richiamo Islamico) – al ritmo incalzante dei quesiti degli inquirenti, incarnazione mediatica delle istituzioni irachene dominate dagli sciiti.

Sul fronte dell’opposizione – oggi marcatamente sunnita – si contesta come la minaccia di ISIS abbia eclissato le ragioni di una contestazione anti-governativa esplosa già a dicembre del 2012, in segno di protesta contro il ricorso sistematico alla legge anti-terrorismo per attaccare gli esponente sunniti dell’opposizione.

In un servizio del 2 gennaio 2014, Al-Arabiya dedica spazio alle istanze dei clan sunniti dell’Anbar, insorti contro l’arresto del parlamentare sunnita Ahmad al-‘Alwani il 28 dicembre 2013, i quali respingono le accuse del premier Maliki di aver facilitato la successiva presa di Falluja da parte di ISIS . La versione dell’opposizione è che a creare le condizioni caotiche favorevoli all’ingresso di al-Qaeda sarebbero stati invece gli scontri tra le tribù locali e l’esercito inviato da Bagdad. Su questo nodo si innesta la polemica tra l’emittente statale Al-Iraqiya e una delle voci dell’opposizione, Baghdad TV, di orientamento islamico sunnita. In un servizio del 12 gennaio, Baghdad TV replica alle accuse di istigazione alla violenza provenienti da Al-Iraqiya, difendendo il diritto di esigere chiarezza sulla natura delle operazioni militari condotte nell’Anbar e di mostrare le proteste degli abitanti di Falluja contro l’arrivo delle truppe nella città di al-Ramadi.

Viene inoltre criticata la rappresentazione dell’Anbar come focolaio di violenza, immagine del resto già cristallizzata nei media filo-governativi: il sopracitato documentario, trasmesso da Al-‘Ahd il 20 novembre, descriveva per esempio le regioni occidentali irachene come “il rifugio sicuro di ISIS .” D’altro canto, non stupisce come il messaggio al-qaedista faccia da tempo breccia in Iraq, un Paese dove la comunità internazionale non ha saputo opporsi all’insediamento della classe dirigente sciita per mano dell’occupazione statunitense e alla conseguente marginalizzazione di ampi strati della popolazione sunnita.

 

Libano: vecchi fantasmi e polarizzazione

Per quanto riguarda i media libanesi, la minaccia al-qaedista viene localizzata nei campi profughi palestinesi, considerati un “ricettacolo” di destabilizzazione sin dai tempi della guerra civile. Sul fatto che i campi profughi offrano un riparo agli estremisti sono tutti d’accordo, dalle emittenti più vicine alla coalizione anti-siriana del 14 Marzo (LBC) a quelle controllate dagli asadisti dell’8 Marzo (OTV).

La polarizzazione degli schieramenti libanesi riemerge invece nell’identificare il mandante dei recenti attentati al-qaedisti a Beirut. In un servizio della LBC del 20 dicembre 2013, si sottolinea l’interesse condiviso tra ISIS e il regime siriano, intenzionato a presentarsi impegnato nella lotta al terrorismo di fronte all’Occidente. Diverso l’approccio dei canali più vicini a Damasco, propensi a rappresentare l’opposizione siriana come un agglomerato indistinto di estremisti islamici e una minaccia alla sovranità nazionale libanese. È questa la linea adottata da Al-Jadeed il 2 ottobre, sottolineando le ambizioni estese a tutto il Levante non solo di ISIS, ma anche delle tredici formazioni “estremiste” islamiche allontanatesi il 24 settembre dalla Coalizione Nazionale delle Forze Siriane della Rivoluzionarie e dell’Opposizione filo-occidentale.

Alcune emittenti esterne al panorama libanese, come Al-Arabiya, abbozzano una contestualizzazione socio-economica del radicalismo sunnita libanese piuttosto che una sua demonizzazione. Nella puntata del 3 maggio del programma “Sina’at al-Mawt (La Fabbrica della Morte)”, l’ospite è un giovane tripolino simpatizzante di al-Qaeda, che combatte al fianco dei ribelli in Siria. L’intervistato afferma di non saper leggere il Corano, estrae dal portafoglio le poche banconote rimastegli e la carta d’identità e si lamenta: “Questa [carta d’identità] non serve neanche a farmi ricoverare in ospedale in Libano! […] Cosa devo fare? Iniziare a rapire gli stranieri e chiedere il riscatto? […] Torno in Siria a combattere, non ho nulla da perdere”.

Al-Arabiya riesce a inquadrare la precarietà sociale del potenziale fondamentalista, ma tradisce la sua faziosità filo-saudita nel dare voce quasi esclusivamente ai sunniti nell’ambito di un’inchiesta sulla presenza di al-Qaeda in Libano.

Nel Paese dei cedri , l’ascesa di al-Qaeda potrebbe cavalcare l’attesa di una rivalsa sunnita cronicamente delusa dalle forze elettorali dai tempi dell’uccisione del premier Rafiq al-Hariri (2005), in un contesto da allora dominato dall’egemonia politico-militare di Hezbollah. Come in Iraq e in Siria, la comunità internazionale ha dato prova d’impotenza: nel caso del Tribunale Speciale per il Libano istituito dall’Onu, l’immunità de facto dei mandanti e degli esecutori dell’omicidio Hariri ha esposto la vulnerabilità dei politici sunniti assurti a icone di opposizione al regime siriano e ai suoi alleati.