“La copertura delle notizie che scegliamo di offrire è più vicina alla gente. Il canale è imparziale, perché dà voce anche a opinioni opposte, ma non neutrale. Non si può esserlo quando si parla di persone innocenti che vengono uccise. La telecamera riprende e mostra la realtà: il nostro obiettivo è seguire qualsiasi guerra per rivelare le atrocità che vengono commesse”. A parlare è Ahmed Sheikh, caporedattore di Al-Jazeera, in un’intervista raccolta nel 2009 dal sito Arab Media & Society. Fa eco a questa affermazione la replica di Nabil Khatib, omologo della rivale per antonomasia, Al-Arabiya: “Seguiamo scuole di pensiero differenti”, sostiene. “Esiste quella che ritiene che i media debbano avere un’agenda vincolata a istanze politiche e ideologiche, come Al-Jazeera. E chi, come noi, invece ritiene di garantire conoscenza e informazione diffondendo notizie in modo quanto più possibile equilibrato”.
È racchiusa qui l’essenza di una disputa ormai decennale per il predominio dell’informazione tra le due principali emittenti all news arabe: Al-Jazeera, creata in Qatar nel 1996, e Al-Arabiya, nata nel 2003 negli Emirati per volere della famiglia saudita. Una battaglia mediatica ma soprattutto politica, che investe ogni aspetto dell’attualità regionale – e non solo - e che ha nell’irrisolta questione israelo-palestinese una sua problematica e cruciale declinazione. L’acceso scambio di battute tra i due direttori, in questo caso, fa infatti riferimento all’operazione israeliana “Piombo Fuso” lanciata da Tel Aviv sulla Striscia di Gaza tra la fine di dicembre 2008 e l’inizio di gennaio 2009, e fino ad oggi considerata un punto di svolta per numerose ragioni. Tra queste, non solo la sua vasta portata e le drammatiche ripercussioni sulla popolazione civile (1.400 le vittime accertate, e un totale di danni pari a centinaia di milioni di dollari), ma anche alcuni elementi che ne hanno reso controversa la copertura mediatica tanto internazionale quanto regionale. Primo fra tutti il divieto imposto da Israele alla stampa di avere accesso alla Striscia di Gaza, fatto che ha evidenziato per la prima volta la centralità dei nuovi media come fonte riconosciuta e integrata dal sistema dell’informazione mainstream. Anche per questo la guerra del 2008-2009 è stata oggetto di numerosi studi, che hanno analizzato le diverse modalità con cui le due principali emittenti regionali hanno scelto, allora, di coprire gli eventi. Una questione tornata di stringente attualità nell’estate del 2014, nel corso dell’ultima operazione “Scudo Difensivo” (8 luglio – 26 agosto) che, superando le precedenti per numero di vittime e danni materiali, è oggi considerata la più grave dal ritiro israeliano da Gaza nel 2005.
La guerra del 2008: una nuova disputa
Un approfondito studio sulla copertura dell’operazione “Piombo Fuso”, realizzato nel 2013 da alcuni ricercatori dell’American University del Cairo (AUC), mette in luce le diverse modalità di copertura degli eventi, che rispecchiano le divergenti linee editoriali delle due emittenti. Sebbene entrambe nel corso di quella guerra tendessero a descrivere come “aggressione” l’azione israeliana e come “auto-difesa” la risposta militare palestinese, già allora emergeva chiaramente come Al-Jazeera fosse più incline a condannare apertamente Tel Aviv, mentre Al-Arabiya aspirasse ad una narrazione più equilibrata e neutrale.
I numeri parlano chiaro: pur con le rispettive differenze in termini di budget e della conseguente capacità di copertura sul campo, a fronte di 168 reportage realizzati da Al-Jazeera durante i 22 giorni di guerra contro i 141 di Al-Arabiya, quest’ultima conduce solo 11 servizi sul campo contro i 55 dell’avversaria qatarense. Mentre la prima utilizza l’espressione “aggressione” per descrivere l’attacco israeliano nel 22,6% dei casi, la seconda lo fa soltanto nel 3,5%, mostrandosi inoltre molto più indulgente verso gli Stati Uniti, la diplomazia internazionale e la posizione dell’Autorità Palestinese (AP). Al-Jazeera, al contrario, valuterà più positivamente l’operato di Hamas, mostrandosi fortemente critica nei confronti dell’Egitto, con il quale i rapporti, nel corso del tempo, si deterioreranno gradualmente (si legga in quest’ottica la chiusura della sede di Al-Jazeera Misr nel giugno 2013 e l’arresto di 3 giornalisti di Al-Jazeera English da parte del governo di Al-Sisi, tuttora detenuti). Gli studiosi dell’AUC analizzano nel dettaglio anche il framing attraverso cui le storie vengono presentate all’opinione pubblica, evidenziando come quello adottato da Al-Jazeera tenda ad una maggiore identificazione “vittime-pubblico” attraverso una forte personalizzazione delle notizie che riguardano la parte palestinese: storie raccontate in prima persona, racconti familiari, esperienze vissute, interviste dirette. Entrambe le emittenti si trovano d’accordo nel criticare fortemente il governo israeliano, tuttavia la maggiore differenza riguarda l’intensità e la frequenza con cui questo viene fatto: Al-Jazeera, in generale, utilizza un linguaggio più incisivo, cita più spesso il numero di vittime civili palestinesi e copre l’evoluzione del conflitto in modo costante attraverso il sistema delle breaking news, sia durante le operazioni militari che a guerra conclusa. Cosa che Al-Arabiya, allora, sceglie di non fare. E che non farà neanche nel corso dell’ultima crisi, nell’agosto 2014, scatenando dibattiti presso l’opinione pubblica araba e controversie sul web. Una situazione che si era verificata anche nel novembre del 2012, durante l’operazione “Colonna di Fumo”, quando ancora una volta il trattamento della crisi aveva riflettuto le diverse agende politiche di Arabia Saudita e Qatar in merito alla questione israelo-palestinese e alle dinamiche intra-palestinesi. Da parte di Al-Arabiya, allora, non c’era stata una copertura estensiva degli attacchi israeliani, diversamente da Al-Jazeera che non aveva esitato a definirli “una seconda Piombo Fuso”. In quell’occasione l’emittente qatarense diede maggiore risalto al punto di vista di Hamas, nell’ottica del sostegno accordato ai gruppi legati alla Fratellanza Musulmana in ascesa nella regione in seguito alle rivoluzioni arabe.
La crisi attuale e la ricerca del consenso
L’8 luglio 2014 Israele lancia l’operazione “Scudo Difensivo” sulla Striscia di Gaza. Anche questa volta, Al-Jazeera s’impone nell’arena mediatica araba garantendo una copertura estensiva sul campo con approfondimenti e analisi costanti. Un’attenzione forse dovuta anche al tentativo di riguadagnare consenso presso quella parte di opinione pubblica araba diffidente nei confronti dell’emittente qatarense, sia perché considerata ideologicamente e politicamente legata alla Fratellanza Musulmana (quindi vicina ad Hamas), sia per le controverse coperture del conflitto siriano e dei recenti sviluppi egiziani. Nonostante la sua evidente empatia con la causa palestinese, Al-Jazeera non ha tuttavia rinunciato a dar voce alla controparte israeliana, ospitando in più occasioni il portavoce dell’Israeli Defence Force, Avichay Adraee, intervistato anche dopo il massacro di civili provocato dal bombardamento della scuola dell’Unwra “Abu Hussein” il 24 luglio 2014, episodio che ha scatenato l’indignazione della comunità internazionale. A differenza dell’emittente di Doha, Al-Arabiya non ha garantito la stessa profondità di copertura né di analisi, sottolineando l’inevitabilità della risposta bellica israeliana al lancio di razzi su Tel Aviv, e non rinunciando a descrivere l’attacco su Gaza come una “reazione”, dunque contestualizzando i crimini israeliani nella cornice di uno scontro tra due parti in guerra: Israele e Hamas. Le responsabilità di quest’ultima nell’escalation di violenza, inoltre, sono state sottolineate a più riprese senza inquadrare le azioni militari palestinesi nell’ambito di una lotta di resistenza: il termine muqawama (“resistenza”), adottato costantemente nella narrazione di Al-Jazeera, non ricorre nei notiziari di Al-Arabiya. Come accaduto durante “Piombo Fuso” quindi, le differenti posizioni si sono riflettute anche nella scelta del linguaggio adottato: se per Al-Jazeera i civili uccisi sono shuhada (“martiri”), per Al-Arabiya ricorrono prevalentemente termini quali qutla o dahaya (“morti” e “vittime”). Le “azioni di resistenza” palestinese descritte da Al-Jazeera diventano “attacchi missilistici” sulle frequenze di Al-Arabiya, che tende a mantenere uno stile più sobrio e meno sensazionalista, evitando di mostrare immagini che possano urtare la sensibilità degli spettatori. Anche i due canali in lingua inglese e i rispettivi portali online, capaci di rendere ormai accessibile all’opinione pubblica occidentale una lettura “araba” degli eventi, a fronte delle tante critiche sollevate contro la copertura internazionale mainstream, riflettono le medesime differenze. Sin dalle prime ore dell’offensiva israeliana, Al-Jazeera English apre un live blog sul quale vengono pubblicati aggiornamenti in tempo reale, 24 ore su 24, le cui fonti sono sia corrispondenti che testimoni selezionati tra i follower dell’account Twitter ufficiale del canale. Anche in questo caso si può notare che i termini scelti riflettono posizioni politiche nette: se Al-Jazeera sceglie di definire l’escalation “War on Gaza”, Al-Arabiya predilige la definizione di “Israeli-Gaza war”. A un mese dal lancio delle operazioni l’emittente qatarense dedica uno spazio sul sito dal titolo “Gaza Under Fire”, che racchiude gli approfondimenti della giornata e i talk show ospitati sul canale, e dà voce ai punti di vista e alle storie personali della popolazione colpita. Ancora oggi, ad oltre un mese dalla fine di “Scudo Difensivo”, sulla home-page del sito si può visualizzare un’infografica interattiva dal titolo “Gaza. Life Under Siege”, che raccoglie le testimonianze degli abitanti di Gaza sulle disastrose condizioni di vita nella Striscia. Di contro, Al-Arabiya è stata criticata da più parti per non aver dedicato uno special coverage alla crisi (realizzata invece per la situazione irachena e il pellegrinaggio alla Mecca), ed ha scelto di intitolare la sezione dedicata al conflitto “Gaza Escalation”. Non compaiono forme avanzate di interconnessione tra il sito e i social network, né uno spazio dedicato al live twitting o speciali approfondimenti. Anche in questo caso, come in passato, ampia attenzione è dedicata ai negoziati, al ruolo di Abu Mazen e dell’AP, così come alle donazioni effettuate dall’Arabia Saudita per la ricostruzione. Anche il coinvolgimento diretto dell’Egitto ha influenzato la copertura mediatica delle due emittenti, e di Al-Jazeera in particolare, che a seguito dello scontro aperto con il governo di Al-Sisi si è rivelata particolarmente critica nei confronti del suo operato e della sua cattiva gestione del conflitto.
La sfida dei nuovi canali e del web
Tacciate di essere strumenti di politica estera delle grandi potenze del Golfo, oggetto di accuse incrociate per la copertura data alle rivolte arabe sin dal loro inizio, tuttavia ancora influenti sull’opinione pubblica araba e ormai accessibili anche a quella occidentale, Al-Jazeera e Al-Arabiya continuano ad avere diverse linee editoriali che incidono sulla percezione pubblica dei maggiori eventi regionali. Se Al-Jazeera in lingua araba si rivolge allo spettatore comune, assecondando le sue aspettative a partire dalla scelta di un determinato linguaggio ed enfatizzando la dimensione sensazionalista della narrazione giornalistica per provocare un impatto emotivo sulla sua audience, Al-Arabiya si contraddistingue per la sua presunta fedeltà al dogma deontologico dell’obiettività, attraverso un giornalismo sobrio che cela, tuttavia, specifici interessi politici e la necessità di soddisfare le linee strategiche e diplomatiche dei suoi sponsor.
Ad ogni modo, non bisogna trascurare la graduale configurazione di un nuovo campo mediatico arabo sempre più diversificato e plurale, risultato dei profondi cambiamenti che hanno investito la regione negli ultimi anni. Con la caduta di alcuni regimi arabi sono sorti nuovi canali privati, locali o satellitari, che hanno sfidato il precedente assetto dell’informazione, giocando un ruolo concorrenziale verso le due emittenti del Golfo. Un nuovo scenario che ha inevitabilmente avuto un impatto anche sulla copertura della crisi di Gaza. A questo si aggiunge la crescita esponenziale della rete e dei social network, capaci di aprire nuovi orizzonti e possibilità di racconto giornalistico. Nel contesto israelo-palestinese, la crisi dell’estate 2014 è considerata la più partecipata da parte degli utenti attraverso Facebook e Twitter – l’hashtag #GazaUnderAttack è stato utilizzato oltre 40 milioni di volte – confermando un trend avviato già dal 2006, anno di inizio dell’assedio totale israeliano sulla Striscia. E’ stato a partire da quel momento che una nuova generazione di palestinesi ha iniziato a farsi spazio, diffondendo attraverso il web i propri messaggi in inglese e rompendo il proprio isolamento. Una nuova forma di comunicazione che ha contribuito alla ridefinizione del sistema dell’informazione, con cui anche le grandi emittenti hanno dovuto fare i conti.
“@thenation: Is Israel Guilty of Genocide?” Still wondering? #GazaUnderAttack http://t.co/vQ8f6cbbFr pic.twitter.com/SMlPwWAB6R“
— samia mebarki (@samiamebarki1) 11 Ottobre 2014