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‘Ti stanno osservando!’ La sorveglianza di massa su Internet in Egitto

24/11/2014
Protesters rally in support of Al Jazeera journalists Abdullah al-Shami and Mohammed Sultan, who were detained by Egyptian authorities, in front of the Press Syndicate in Cairo

Sembra che il governo egiziano non sia più soddisfatto dei tradizionali metodi di censura impiegati per controllare l’attività di Internet e di tutti i mezzi di comunicazione in generale. Per anni la censura è ruotata intorno ai procedimenti giudiziari a carico di soggetti cui venivano rivolte le più svariate accuse, mentre oggi il governo sta cercando di sviluppare un sistema di sorveglianza di massa che monitori per intero l’attività digitale di tutti gli utenti. Il sistema non si limiterà a verificare solo i contenuti pubblici, ma terrà conto anche delle conversazioni private e dei messaggi inviati tramite applicazioni mobile come Viber e WhatsApp.

Nell’ambito di un programma del governo volto a sviluppare un sistema di sorveglianza di massa su social media, conversazioni e messaggi privati, il Ministero degli Interni ha indetto una gara d’appalto a procedura ristretta per la fornitura e messa in opera di un software che monitori le attività su Internet. Il progetto, ribattezzato “Operazione di Monitoraggio dei Rischi in materia di Sicurezza legati ai Social Network (aka sistema di misurazione dell’opinione pubblica)”, è stato svelato per la prima volta in un rapporto pubblicato il 1° giugno 2014 sul quotidiano egiziano Al-Watan.

Lungi dallo smentire il servizio del giornale, un funzionario del ministero degli Interni ha successivamente confermato la notizia nel corso di un’intervista telefonica con un canale televisivo, precisando però che il sistema non intende assolutamente configurarsi come una violazione della privacy e delle libertà di informazione ed espressione.

La fuga di notizie sul progetto, avvenuta poco dopo che le elezioni presidenziali si erano concluse e prima che ne venissero comunicati i risultati definitivi, ha generato tra gli attivisti egiziani sdegno e preoccupazione. La risposta è stata, come al solito, sarcastica, tramite il ricorso all’hashtag #we’re being watched (“ci stanno osservando”) su Facebook e Twitter.

Qualche attivista e alcune organizzazioni per i diritti umani hanno deciso di far causa al Ministero degli Interni, avviando un procedimento in tribunale (numero 63055, anno giudiziario 68) presso la Corte Amministrativa, al momento in attesa della prima udienza.

Il 17 settembre 2014 i giornali hanno riportato la notizia secondo cui il Ministero degli Interni avrebbe già siglato un contratto con la Systems Engineering of Egypt (SEE), l’azienda che presumibilmente ha vinto il bando e che è un’affiliata della Blue Coat, compagnia americana specializzata in cyber-sorveglianza e spionaggio informatico. La società egiziana ha tutta una sua storia di collaborazioni con l’apparato di sicurezza statale del Paese. Dopo che l’informazione era stata pubblicata, l’azienda ha temporaneamente sospeso il proprio sito, mentre altre testate continuavano a riportare dichiarazioni di funzionari del ministero degli Interni che confermavano la stipula del contratto.

Censura e sorveglianza

Quello a cui stiamo assistendo oggi non è il primo incidente in materia di cyber-censura che si verifica in Egitto. Stando a una sentenza emessa dalla Corte Amministrativa nel 2011, nell’ambito del caso che riguardava il blackout delle comunicazioni di massa coinciso con la rivolta del 25 gennaio, i tentativi di sorveglianza sono iniziati al più tardi nel 2008, quando sono stati condotti esperimenti in tal senso dai ministeri degli Interni, della comunicazione e dell’Informazione, con la collaborazione di alcuni provider di servizi di telefonia mobile. Uno di questi tentativi ha avuto luogo ad aprile del 2008, e un altro ancora il 10 ottobre del 2010: in entrambi i casi si è testata la possibilità di interrompere tutte le comunicazioni in Egitto, sospendere determinati siti, interdire l’accesso a Internet da “una città o da uno o più governatorati” e anche di rallentare la navigazione in siti web specifici. Entrambi gli incidenti vedevano inoltre la presenza di un piano volto a garantire un rapido accesso alla cronologia degli utenti Internet per gli ultimi tre mesi o anche di più.

Nel 2010, la stessa Corte ha emesso anche una sentenza nell’ambito di un caso relativo al monitoraggio dei servizi di SMS collettivi. Il verdetto abrogava un decreto precedentemente istituito dall’Autorità Nazionale di Regolamentazione delle Telecomunicazioni in cui si imponeva un controllo preliminare e/o a posteriori sui servizi di SMS di gruppo. La sentenza annullava inoltre l’obbligo per le aziende di ottenere l’autorizzazione preventiva delle autorità all’invio di SMS collettivi, condizione tesa a “censurare i contenuti dell’SMS”.

Dopo la presa d’assalto degli uffici della Sicurezza Statale da parte dei cittadini all’indomani delle proteste di gennaio, sono trapelati alcuni documenti che rivelavano come il governo egiziano avesse cercato di acquistare tecnologie che lo avrebbero aiutato a cyber-spiare dati e attività degli utenti. La tecnologia per far questo avrebbe dovuto essere fornita da una società specializzata in questo tipo di software, la Gamma International.

A parte i casi sopra citati, i tentativi delle autorità egiziane di controllare il cyberspazio, prima del 2008 e fino ad oggi, si sono limitati solo ai procedimenti legali ai danni di attivisti. Le cause intentate hanno interessato l’uso fatto dagli attivisti di social media come blog, Twitter, Facebook, ecc. Principalmente sono state invocate disposizioni legali sparse del Codice Penale egiziano più che altro formulate con l’obiettivo di combattere i cosiddetti “reati di pubblicazione”. Per quanto tali leggi non facessero esplicito riferimento all’editoria digitale come mezzo di pubblicazione, restavano comunque abbastanza sul vago ad assoggettarla alle loro norme.

Parecchi attivisti hanno pagato un prezzo altissimo per la censura delle piattaforme digitali da parte del governo. Nel febbraio del 2007, il blogger Karim Amer è stato condannato a quattro anni di carcere per blasfemia e oltraggio al presidente, sulla base dei contenuti postati nel suo blog personale. L’Università Al-Azhar, che Amer frequentava all’epoca, lo ha accusato di infrangere la legge.

Nel 2010, l’utente Facebook Ahmed Hassan Bassiouny è stato condannato a sei mesi di carcere per aver creato una pagina Facebook di informazioni generali per le nuove reclute dell’esercito. Dopo aver completato il proprio periodo di servizio militare obbligatorio presso l’Amministrazione per l’Arruolamento e la Mobilitazione, Bassiouny aveva deciso di condividere con le nuove reclute le conoscenze generali acquisite, aggregando materiali consultabili anche su diversi altri siti. Tra le informazioni fornite c’erano l’elenco dettagliato dei documenti richiesti, i giorni e gli orari in cui recarsi all’ufficio di reclutamento per fare domanda, cosa comportava il saltare il termine ultimo per farlo e i requisiti per il rinvio e la riforma. Malgrado tutte le indicazioni postate da Bassiouny fossero già disponibili su molti altri siti, compreso quello del Servizio di Informazione Statale, il tribunale militare ha stabilito che si trattasse di informazioni riservate, che non potevano essere pubblicate senza previa autorizzazione scritta del Ministero della Difesa.

Ma la censura sul contenuto non è finita con la rivolta del 25 gennaio. Nel periodo successivo alle proteste, diversi attivisti sono stati perseguiti in virtù di quanto pubblicato sui social media. Tra di loro c’era Alber Saber, condannato a tre anni di carcere nel dicembre del 2012 per aver postato testi e video su Facebook e YouTube, oltre che sul suo blog personale, in cui esprimeva, su varie tematiche di carattere religioso, opinioni ritenute blasfeme dal tribunale egiziano.

Durante l’indagine sul caso di Saber, il pubblico ministero ha chiesto a un comitato del Ministero degli Interni di loggarsi ai suoi account sui social network e di verificare le prove digitali che erano state sequestrate in fase di perquisizione della sua abitazione. Il rapporto dei tecnici aveva concluso, dopo aver controllato i messaggi che Saber si era scambiato con i suoi amici di Facebook, che l’uomo aveva un altro account su Facebook ed era anche tra gli amministratori di una pagina intitolata “Egiziani atei”. Anche i messaggi inviati ai suoi contatti contenevano frasi a quanto pare di sprezzo nei confronti dell’Islam.

In questo caso le autorità non hanno solo esaminato il materiale – nello specifico si trattava di contenuti online – presentato in tribunale in relazione alla presunta accusa di reato, ma hanno anche intrapreso un processo di “sorveglianza”, controllo e indagine di tutta l’attività online dell’imputato, alla ricerca di nuovi capi d’accusa e di prove a sostegno di quelli originari.

In generale, le accuse contro l’attività online degli utenti sono arrivate a includere commenti su sentenze e appelli non autorizzati alla violenza, il che però non ha condizionato l’uso dello spazio virtuale da parte degli attivisti. Hanno continuato a scambiarsi pensieri – alcuni anche parecchio controversi –, a diffondere e assimilare conoscenze e a chiamare a raccolta in previsione di determinati eventi politici, il che ha rappresentato una sfida enorme per le autorità egiziane, soprattutto nel 2011 e 2012. Di conseguenza, le istituzioni sono state costrette a rivedere le proprie strategie cercando delle tecniche di monitoraggio alternative che andassero oltre l’analisi di contenuti specifici pubblicati dagli indiziati di un’inchiesta o dagli imputati di un procedimento penale. La vecchia tattica del regime sembrava non essere riuscita a far gioco alle autorità nel tentativo di dare un giro di vite sia sulla sfera pubblica che su quella politica.

Per questo motivo è stata annunciata l’“Operazione di Monitoraggio dei Rischi in materia di Sicurezza legati ai Social Network”, o “sistema di misurazione dell’opinione pubblica”, nell’ambito di una strategia che punta alla vigilanza massiccia e costante dell’attivismo digitale su Internet invece di intervenire soltanto in caso di reato penale o su richiesta degli inquirenti a fini investigativi.

Privacy e spionaggio

I tradizionali metodi di censura si sono, di fatto, configurati come una violazione del diritto individuale alla privacy, tuttavia gli abusi che essi comportavano non sono minimamente paragonabili a quelli derivanti dall’attuazione dei piani di sorveglianza di massa da parte del governo.

Stando ai termini della gara d’appalto annunciata dal ministero, la tecnologia auspicata dovrebbe dare vita a un sistema in grado di verificare costantemente l’intera attività digitale, a prescindere che sussista o meno il sospetto di un utilizzo del cyberspazio per iniziative illegali. Ciò di fatto è in contraddizione con le norme egiziane che regolano l’attività investigativa o la ricerca di prove a dimostrazione di un illecito o di un reato. L’autorità dell’inquirente, come stabilito dall’Articolo 21 del Codice di Procedura Penale, dovrebbe limitarsi all’indagare i crimini, arrestare i trasgressori e raccogliere prove per l’inchiesta o il processo.

Ciò significa che l’autorità del funzionario incaricato delle indagini nel raccogliere prove dipende dall’esistenza di informazioni legate al verificarsi di un certo reato commesso da una o più persone. Nelle disposizioni a seguire, il codice entra nel dettaglio di come gli inquirenti possano indagare e raccogliere tali prove attraverso il ricorso a varie misure, tra cui: la richiesta di ulteriori chiarimenti e l’interrogatorio nel corso di indagini relative a reati denunciati; l’arresto dell’imputato colto nell’atto di commettere crimine o reato, il che comporta una pena di tre o più mesi di carcere; o, se l’imputato non è colto sul fatto, l’ottenimento di un mandato d’arresto da parte del pubblico ministero. Questo vale anche per la perquisizione di case e persone, dal momento che la normativa garantisce agli agenti il diritto di perquisire un individuo solo se può essere fermato nel pieno rispetto della legge.

Il 2 febbraio 1984, la Suprema Corte Costituzionale ha stabilito l’incostituzionalità dell’Articolo 47 del Codice di Procedura Penale (caso 5, anno giudiziario 4). Tale disposizione aveva in passato consentito agli inquirenti di perquisire casa dell’imputato, se colto nell’atto di commettere delitto o reato, e di porre sotto sequestro oggetti e documenti che potessero fornire informazioni utili sulla base di quelli che venivano definiti “indizi sostanziali”. A detta della Corte la frase “indizi sostanziali” era piuttosto equivoca, e avrebbe potuto determinare un abuso del potere di perquisizione e quindi una violazione della privacy.

Oltretutto, l’Articolo 50 del Codice di Procedura Penale stabiliva che la perquisizione dovesse limitarsi ai soli oggetti collegati al reato su cui si stava indagando. Ma, allo stesso tempo, il medesimo articolo fornisce agli agenti responsabili della perquisizione una possibile eccezione, laddove è loro consentito di sequestrare oggetti non direttamente specificati dal pubblico ministero, nella sola eventualità che il possesso di tali oggetti sia illegale o nel caso in cui l’oggetto assuma rilevanza ai fini di un altro reato su cui investigare. Il Ministero degli Interni sta applicando la legge in materia di procedura penale, approvata dal sistema giudiziario egiziano per le indagini relative ai reati penali, per controllare ogni tipo di attività digitale, ma al tempo stesso viene meno ai diritti alla privacy e alla libertà di espressione e informazione sanciti nel corpus.

Contrariamente alle regole tradizionali dell’indagine penale, il sistema di vigilanza annunciato dal ministero degli Interni raccoglierà informazioni e monitorerà i dati e le attività di tutti gli utenti Internet, che si tratti di indiziati o no. Il controllo non sarà inoltre circoscritto a un dato lasso di tempo, non necessiterà di un mandato giudiziario e potrà essere esercitato a prescindere dall’effettiva necessità.

Monitorare la sfera pubblica e quella privata

A difesa del suo progetto, il ministero degli Interni sostiene che il nuovo sistema non violerà la privacy individuale né la libertà di espressione e informazione. A sentir dire, si limiterà a monitorare le notizie pubblicate nella sfera “pubblica” virtuale, alle quali chiunque può avere accesso anche senza ricorrere alle tecnologie di spionaggio informatico o all’invasione della privacy altrui. A quanto pare, lo scopo è quello di combattere il terrorismo e altre forme di reati penali. Da una parte, queste argomentazioni sono in netta contraddizione con i termini della gara d’appalto indetta per il progetto di sorveglianza e dall’altra, sollevano alcuni interrogativi circa il diritto dell’individuo alla privacy nell’ambito della sfera pubblica digitale.

Sostenere che la questione della privacy sia irrilevante in riferimento a informazioni che sono state postate pubblicamente – per esempio, i tweet su Twitter – indica o che si ignora il significato del concetto di privacy o che si sta tentando di eluderlo. Un utente sceglie consapevolmente di condividere un certo contenuto con gli altri, che a loro volta condividono altro contenuto come forma di scambio. Se però un sistema di sicurezza monitora ogni singolo dettaglio di quanto avviene sui social network, lo fa in definitiva contro la volontà degli utenti, il che rende tutto ciò una grave violazione della privacy. Un esempio lampante di quanto detto è Facebook, dove gli utenti condividono i propri contenuti pubblici con una lista di amici o follower. Chi non è nell’elenco non ha accesso al contenuto, a meno che l’utente stesso non glielo permetta. Quindi, se qualcuno che non fa parte dei suoi contatti cerca di collegarsi alle informazioni condivise da un utente senza la sua autorizzazione, ne sta invadendo la privacy.

La tutela della privacy nell’ambito della sfera pubblica non è un tema nuovo nel campo dei diritti legali. Secondo l’Articolo 309(a) del Codice Penale egiziano, è proibito utilizzare qualsiasi contenuto, sia pubblico che privato, senza il permesso di chi ne è titolare. Se un funzionario pubblico commette un atto del genere, ciò comporterà la sua carcerazione. Questa norma serve a scongiurare l’abuso di potere da parte dello Stato nello spionaggio a carico di singoli individui. Nello spionaggio, secondo quanto stabilito nella legge sopra citata, rientrano l’origliare, il registrare o copiare conversazioni, lo scattare o copiare fotografie. Ciò ribadisce il diritto del singolo alla privacy sia nella sfera pubblica che in quella privata, con buona pace delle affermazioni dei funzionari del ministero degli Interni secondo cui la privacy nella sfera pubblica non esiste.

Per quanto riguarda invece l’invasione della sfera privata, i termini del bando aperto dal Ministero degli Interni attribuivano priorità alle offerte che consentissero di monitorare social network, come Whatsapp e Viber, usati per l’invio di messaggi privati, e Instagram, che viene impiegato per salvare ed editare foto. Ciò dimostra come il governo stia cercando di spiare conversazioni e messaggi privati degli utenti, contrariamente alla pretesa secondo cui l’attività di monitoraggio avrebbe coinvolto solo i contenuti pubblici.

I termini del bando prevedono anche una funzionalità che consenta di identificare le persone particolarmente influenti in determinate aree geografiche e di stabilire che connessione c’è tra di esse monitorando il contenuto dei social network. Questo comporta l’individuazione e il monitoraggio dell’attività di individui che hanno un ascendente in ambito pubblico e/o politico.

Vale anche la pena di osservare come questo progetto di monitoraggio dei social network, introdotto dal ministero degli Interni, violi i principi internazionali in materia di diritti umani riferiti al controllo delle comunicazioni. Uno di essi è il principio della “proporzionalità”, per il quale “le scelte relative alle attività di vigilanza sulle comunicazioni vanno prese dopo aver ben ponderato i benefici che si cerca di perseguire rispetto al danno causato ai diritti dell’individuo e ad altri interessi in concorrenza, e dovrebbero prendere in considerazione l’eventuale sensibilità dell’informazione e la gravità della specifica violazione del diritto alla privacy”.

Il secondo principio violato è quello della “necessità”, che stabilisce quanto segue: “Le leggi che consentono un’attività di sorveglianza delle comunicazioni da parte dello Stato devono limitare tale controllo a quel che è strettamente necessario ai fini del raggiungimento di un legittimo obiettivo”.

Per concludere, attuando questo progetto di vigilanza di massa, il governo egiziano non solo sta violando le leggi egiziane in materia di privacy, ma sta di fatto violando la Costituzione stessa.

Gli agenti incaricati della vigilanza non avranno più bisogno di un mandato per monitorare gli individui e invaderne la privacy, e il controllo non sarà circoscritto né a un dato lasso di tempo né a un’effettiva necessità. Ciò si configura come una grave minaccia per i diritti e le libertà della persona, minaccia che non può essere neutralizzata solo sviluppando delle tecnologie anti-spionaggio, ma cambiando piuttosto le politiche statali, che puntano a inibire le piattaforme di attivismo digitale.

Questo progetto di sorveglianza è principalmente politico, e sintomatico delle ossessioni e dei timori che lo Stato nutre nei confronti dell’interazione virtuale. Per questo motivo, l’azione che bisogna intraprendere contro di esso deve essere di natura altrettanto politica.

Traduzione a cura di Chiara Rizzo

Pubblicato in inglese da Mada Masr,29 Settembre 2014.

Foto di REUTERS/Mohamed Abd El Ghany