Raccontare le rivoluzioni. La Libia al centro di un nuovo studio

19/03/2015
Demonstration_in_Al_Bayda_(Libya,_2011-07-22)

Agli occhi dell’opinione pubblica dei Paesi non democratici, la guerra civile in Libia non è apparsa la stessa guerra vista dai Paesi democratici. È questo il corollario di Filtering revolution: Reporting bias in international newspaper coverage of the Libyan civil war, recente studio firmato da Matthew Baum (Università di Harvard) e Yuri M. Zhukov (University of Michigan), che prende proprio la rivoluzione scoppiata a Benghazi nel febbraio 2011 come campo di indagine per dimostrare scientificamente l’influenza del contesto politico di un giornale, nel suo modo di presentare una notizia.

Se da una parte infatti, la nostra percezione di un conflitto non può che formarsi attraverso un’esperienza indiretta – e quindi un racconto – dall’altra parte il racconto stesso è sempre una forma di mediazione. Tra un evento e il suo resoconto ci sono filtri ineliminabili, determinati già in prima istanza dalla necessità di selezionare e quindi decidere se un fatto merita o meno di diventare notizia. Oltre alla personalità del giornalista, alla sua umanità, alla sua sensibilità – e, spesso accade, le sue idee e convinzioni – c’è quello che il giornalismo anglosassone ha teorizzato come newsworthiness (notiziabilità), ossia la capacità del fatto stesso di diventare notizia. Ed ecco ancora altri filtri.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Sage nel febbraio 2015, ha indagato infatti la copertura giornalistica della rivolta libica da parte dei quotidiani di 113 paesi, per scoprire che – dati alla mano – i paesi democratici tendono a raccontare la guerra usando e legittimando il punto di vista dei ribelli, mentre quelli non democratici privilegiano la prospettiva a sostegno dello status quo.

Al vaglio della ricerca, un corpus di oltre 213 mila articoli, provenienti da 2252 quotidiani e riguardanti più di 1500 eventi verificatisi in Libia tra il 18 dicembre 2010 (data del gesto estremo del giovane Mohamed Bouazizi che, dandosi fuoco in segno di protesta contro l’autorità tunisina dette il via alle Primavere Arabe) e il 23 ottobre 2011 (tre giorni dopo la cattura e l’uccisione del leader libico Mu’ammar Gheddafi, a Sirte). Inserita nel pieno della Primavera Araba, la guerra civile libica non poteva infatti non essere oggetto dell’attenzione dalle testate internazionali. Al tempo stesso, la durata relativamente breve del conflitto, ha permesso una mole di dati gestibile per far emergere le eventuali influenze e tendenze assunte dalle stesse testate in maniera sistematica, nel raccontare quanto stava accadendo nel Paese di Gheddafi. È così che lo studio ha confermato l’ipotesi di partenza, ossia l’ombra dei governi nella decisione di se e quali notizie pubblicare in relazione a un conflitto. Nei paesi democratici – quindi caratterizzati da un basso controllo dello Stato sui media, e dove le decisioni relative alla notiziabilità di un fatto rispondono principalmente alle necessità economiche delle testate (aumentare lettori e quindi vendite) – il punto di vista che è prevalso nella copertura di un conflitto è stato quello a favore del cambiamento e quindi dei ribelli. Al contrario, nei paesi non democratici, dove il controllo dello stato sui media è alto al punto di poter influenzare la selezione delle notizie, il punto di vista prevalente è stato quello – spesso dettato dalla paura dell’emulazione – a sostegno dello status quo. Di conseguenza, nel primo caso, eventi come proteste non-violente, il coinvolgimento di civili tra le vittime dell’esercito del governo o qualsiasi altro fatto che legittimasse l’azione dei ribelli, tendeva a essere maggiormente raccontato rispetto a eventi come, ad esempio, l’uccisione di civili da parte delle azioni dei ribelli – viceversa più raccontate dai media nei paesi non democratici.

Un primo sguardo ai dati elaborati da Baum e Zhukov fa emergere che, in media e durante il periodo di osservazione, sono stati pubblicati 1889 articoli sulla Libia – all’incirca sei al giorno. “Tuttavia la loro distribuzione non era uniforme”, scrivono gli autori, indicando una prima disparità di tipo quantitativo nell’attenzione dedicata agli eventi libici da parte dei giornali, in base al governo del paese di appartenenza. “In media, ogni giorno, un quotidiano di un paese democratico aveva il 10% di possibilità di pubblicare almeno un articolo sulla Libia. Nei paesi non democratici, questa possibilità si abbassava al 7%”. Benché più restii a voler trattare come notizia quanto accadeva nelle città libiche, i quotidiani che rispondevano a governi non democratici tendevano a fare scelte piuttosto omogenee in termini di copertura mediatica. Questo a differenza dei giornali dei paesi democratici, dove la copertura mediatica della guerra civile in Libia, oltre a essere più ampia è stata più variegata.

Dal punto di vista qualitativo, invece, i quotidiani dei paesi democratici hanno prediletto la pubblicazione di articoli successivi alle proteste di piazza; tematica cara alle testate dei governi autoritari solo quando le stesse proteste si rivelavano dei flop. Un atteggiamento simile lo si è rintracciato di fronte agli incidenti ai danni di civili, che finivano nei giornali delle democrazie più facilmente quando avvenivano per mano del governo rispetto a quando erano causati dalle azioni dei ribelli. Viceversa, nel caso delle testate dei paesi non democratici che tacevano volentieri i morti civili provocati dalle forze armate del governo, dando invece maggior risalto a quelli provocati dai rivoluzionari.

I dati concreti riportati da Baum e Zukhov a sostegno della loro tesi costituiscono, secondo gli autori, la vera novità di questo studio. “I risultati sono potenzialmente importanti nell’aiutarci a aumentare la nostra comprensione delle guerre che si combattono attraverso la stampa e che spesso si accompagnano a quelle combattute realmente sul campo di battaglia”, scrivono gli autori. “Benché i media nelle democrazie siano nella maggior parte dei casi indipendenti dall’influenza del governo, hanno comunque delle tendenze proprie – come i criteri di notiziabilità che enfatizzano la novità, il conflitto, la vicinanza, la drammaticità – che tendono a sfociare in una copertura del conflitto che favorisce le forze antiregime. Mentre l’auto-preservazione dei governi autoritari che cercano di influenzare o controllare i media del proprio paese favorisce una copertura che sottolinea la legittimità e l’inevitabilità dello status quo.”