L’Isil sugli schermi di Al-Mayadeen: il cavallo di Troia del neo-imperialismo americano

Obama_Baghdadi

“Gli Stati Uniti sono la madre del terrorismo, non l’eroe che combatte Isil”, recita la scritta, mentre Barack Obama si guarda in uno specchio dove appare l’immagine di Abu Bakr al-Baghdadi, il “califfo” dell’autoproclamato “stato islamico” (Da’ash, nel suo acronimo arabo). La parodia impazza sui social network libanesi, forse anche perchè a condividerla, fra gli altri, è stata l’avvenente giornalista Ghadi Francis, oltre 100.000 fan su Facebook.

Non sono pochi, anche in Libano, a leggere la campagna americana contro Isil come fosse l’ennesimo tentativo di invadere la regione araba; e a fare l’equivalenza imperialismo americano-terrorismo islamico. Particolarmente insistente su questo punto è Al-Mayadeen (le piazze), l’ultima nata delle televisioni satellitari arabe, di base a Beirut. In poco più di due anni la rete, guidata da Ghassan Bin Jeddo, ex stella di Al-Jazeera, sembra aver guadagnato i favori di una sinistra intrisa di valori anti-americani e “laica” (o, comunque, non immediatamente riconducibile ad un’appartenenza religiosa e settaria). Una sinistra per cui Bashar al-Asad e Hezbollah rimangono emblema della resistenza al neo-imperialismo, impegnati in prima linea nella difesa della questione palestinese. Valori e credo che non appaiono troppo distanti dalla generica professione di fede anti-americana e pro-palestinese manifestata da una certa sinistra globale, anche europea: non a caso, uno dei volti di punta di Al-Mayadeen è George Galloway, politico britannico da sempre schierato a fianco della Palestina (ma anche vicino a Saddam Hussein e al figlio Uday). Prima di guidare un talk show della rete libanese, Galloway aveva lavorato per l’iraniana Press TV e per Russia Today: collaborazioni che in patria gli erano costate aspre critiche, in particolare per i cospicui guadagni a fronte del tempo sottratto al suo lavoro di parlamentare.

Il pedigree di Galloway è perfettamente in linea con la politica editoriale di Al-Mayadeen. Nonostante le dichiarazioni di Bin Jeddo al lancio della rete – “Non parliamo a nome dell’Iran o del regime siriano, siamo un canale completamente indipendente che riflette la realtà così com’è” (che è poi il motto ufficiale di Al-Mayadeen) – sono non pochi i dubbi sulle alleanze geostrategiche che ne muoverebbero finanziamenti e linea editoriale. In primo luogo, l’assetto proprietario del canale non è stato reso pubblico. Bin Jeddo non ha mai rivelato dettagli sul capitale che finanzia Al-Mayadeen. Da parte sua, il giornalista libanese Omar Ibhais, in un’intervista con il quotidiano panarabo di proprietà saudita Asharq Alwsat, avrebbe ricondotto la satellitare ad una “joint venture fra gli iraniani e Rami Makhlouf”, cugino di Bashar al-Asad e proprietario di un impero economico che comprende il settore immobiliare, finanziario, e anche quello dei media privati siriani.

Nonostante le speculazioni sull’assetto proprietario della rete satellitare libanese non siano mai state confermate o sostenute dai dati, il legittimo dubbio della connessione al regime siriano resta. Sami Kleib, direttore delle news di Al-Mayadeen, è il marito di Luna Chebel, ex giornalista di Al-Jazeera, oggi a fianco di Bashar al-Asad come stratega di puntato della comunicazione del presidente siriano. Sin dalla primavera 2011 il volto di Ghassan Bin Jeddo, immediatamente dimissionario da Al-Jazeera in protesta contro la copertura della rivolta siriana, era apparso per le strade della Siria su cartelloni e poster pubblicitari che leggevano le manifestazioni di piazza come frutto di una cospirazione, e non come genuina richiesta di riforme da parte della popolazione. Bin Jeddo, inoltre, anche durante il lungo periodo trascorso ad Al-Jazeera come capo dell’ufficio di Beirut e conduttore del programma Hiwar Mafthou (Dialogo aperto), non aveva mai fatto mistero delle sue simpatie e connessioni alla leadership di Hezbollah. Il cerchio si chiude nella figura di Nayef Krayem, ex direttore della rete Al-Manar, di proprietà del “partito di Dio”, passato alla direzione generale di Al-Mayadeen al momento del suo lancio (sebbene poi abbia lasciato il canale).

Insomma, nonostante le dichiarazioni di “indipendenza” e la promessa, in chiave palesemente anti Al-Jazeera, di non alimentare il settarismo nel riferire dei conflitti in corso in Medio Oriente – “sono i padroni di Al-Jazeera, i qatarini (che) stanno spingendo questo canale verso il suicidio giornalistico”, accusava Ali Hashem, anche lui fuoriuscito dalla rete panaraba per abbracciare il credo Al-Mayadeen – il consorzio guidato da Bin Jeddo solleva non pochi punti interrogativi.

Il quotidiano panarabo Asharq Alwsat definisce la cordata mediatica di cui anche Al-Mayadeen fa parte l’”asse della resistenza” guidato da Siria, Iran e, naturalmente, Hezbollah con la sua rete Al-Manar. La lettura che l’”asse” dà di Isil è unanime nel condannarla come cavallo di Troia del neo-imperialismo americano; e nell’avvicinarla allo stato di Israele in quanto organizzazione giudicata fascista e terrorista. Esempio di questa tendenza è l’editoriale pubblicato dal sito web di Al-Mayadeen lo scorso 15 agosto, che tracciava linee di somiglianza fra Israele e Isil sulle basi di una loro presunta natura di organizzazioni che giustificano l’assassinio e il terrore in nome di una “promessa divina”. Uno stato che prospera su “terra rubata”, nel caso di Israele; mentre per Da’ash la promessa si verrebbe a materializzare attraverso il possesso di “donne, terra, e petrolio”. Le due entità vengono accostate anche visivamente nelle foto scelte per illustrare l’articolo e costruire il parallelo fra i crimini di Isil contro la popolazione civile siriana, e il massacro operato dagli israeliani a Sabra e Shatila.

Più ambiguità appare nel trattare la questione curda e la resistenza di Kobane. Se infatti, visivamente, l’articolo apparso sul sito di Al-Mayadeen dello scorso 30 ottobre, omaggia la resistenza curda – soprattutto nel suo elemento femminile che tanto attrae anche i media occidentali e una certa sinistra laica e progressista –, l’analisi che fa di Kobane va in un’altra direzione, inquadrandola all’interno di un conflitto geopolitico fra “potenze straniere”, con gli Stati Uniti in prima linea. È il siriano Imad Fawzi al Shoebi, direttore di un think tank vicino al regime di Bashar al-Asad, che chiarisce il senso di quest’espressione, affermando che la resistenza curda, seppure storicamente portatrice di una giusta causa nella regione, viene oggi strumentalizzata dagli americani per riparare al fallimento di una strategia che non è riuscita, in oltre tre anni dall’inizio della crisi siriana, a trovare una soluzione ragionevole.

D’altra parte il Libano fa parte della coalizione anti-Isil guidata dagli Stati Uniti, e una parte dei media libanesi – e dei movimenti politici che li sostengono – ne difende strenuamente le posizioni e la giusta causa. È il caso di Al-Mustaqbal (Futuro), la cordata politico-mediatica capeggiata dalla dinastia Hariri e storicamente vicina all’Arabia Saudita. In una recente dichiarazione apparsa sul sito del movimento politico 14 Marzo (di connotazione anti-siriana e anti Hezbollah), il segretario generale di Al Mustaqbal Ahmad al-Hariri ha duramente condannato Hassan Nasrallah e il suo discorso dello scorso 27 ottobre dove il leader di Hezbollah denunciava l’Arabia Saudita e il credo wahabita come fonti primarie del terrorismo internazionale. “L’Arabia Saudita si assume le sue responsabilità nel combattere i gruppi takfiri, ma Nasrallah ci vorrà dire cosa lui e l’Iran stanno facendo in proposito, oltre a investire nelle azioni dei gruppi terroristici in modo funzionale al loro progetto?”, ha sottolineato Hariri, aggiungendo che “l’estremismo iraniano, che Nasrallah e i suoi simili rappresentano, è l’origine e la quintessenza del takfir, mentre l’Arabia Saudita è il regno dell’Islam moderato e suo incubatore nell’intera regione”.

L’attacco ad Hezbollah non viene soltanto dai media e dai movimenti politici schierati a fianco dell’Arabia Saudita, riproducendo anche in Libano uno scenario di contrapposizione Golfo arabo-Iran, Islam sunnita contro Islam sciita, già ampiamente diffuso sulle satellitari panarabe. Gli utenti dei social network della regione hanno cominciato, già dall’inizio della crisi siriana, a scambiare parodie e taglienti prese in giro del partito di Dio, una volta intoccabile per la sua strenua resistenza a fianco della Palestina e per i suoi successi militari contro Israele. L’aura di sacralità che circonda Hezbollah, e questa sorta di ammirazione rispettosa per il movimento, sembrano essere svanite a fronte della sua decisione di schierarsi a fianco di Bashar al-Asad e sostenerlo nella repressione anti-rivolta in Siria.

Per la prima volta il web arabo, in particolare quello siro-libanese, si prende gioco del partito di Dio che viene ribattezzato, in uno dei tanti remix che circolano in rete, “partito del diavolo”. In un’altra immagine ampiamente diffusa sui social network si vede il fucile presente nell’originale logo di Hezbollah puntato contro una donna vestita con la bandiera della rivoluzione siriana e spararle. In alto campeggia la parola muqawama (resistenza), uno dei motti del movimento di Nasrallah, che nel contesto originario si riferisce alla lotta anti-israeliana a fianco della Palestina, mentre nella versione satirica diventa l’arma puntata contro chi ha osato opporsi al regime di Bashar al-Asad.

PartitoDiavolo

E, a proposito del presidente siriano, gli attivisti hanno da poco lanciato un’altra campagna in rete, che lo raffigura a fianco del “califfo” di Isil: “same shit”, recita lo slogan. La campagna è molto diffusa fra quegli attivisti siriani, oggi in esilio soprattutto fra Libano e Turchia, che hanno partecipato alle prime manifestazioni anti-regime e che oggi si vedono tagliati fuori, anche mediaticamente, da un dibattito sempre più polarizzato e che contrappone il regime di al-Asad all’estremismo islamico. “La farq” (Non c’è differenza), rispondono gli attivisti in un’altra campagna, anch’essa mirata a ravvivare lo spirito iniziale della rivoluzione siriana, pacifico e progressista, nel tentativo di ricordare ai media, sia arabi che internazionali, che questa parte di società civile siriana esiste e resiste.

same_shit

 

Aldilà della vivacità e della creatività espresse dal web arabo, il dibattito sui media tradizionali continua ad articolarsi attorno agli assi geopolitici – e settari- della contrapposizione fra Iran e Golfo arabo, principalmente Arabia Saudita. Anche in un paese come in Libano – o, forse, soprattutto in un paese come il Libano, dove la frammentazione e l’appartenenza settaria e clanica prevalgono sull’identità nazionale – la partita mediatica e politica si gioca riproducendo queste stesse contrapposizioni. Che sia attraverso il discorso sofisticato, apparentemente progressista e non settario di Al-Mayadeen, con la sua capacità di parlare a una sorta di sinistra transnazionale; o tramite canali più “tradizionali” come Al-Manar, la lettura dei media “dell’asse della resistenza” è univoca: Isil è uno strumento del neo-imperialismo statunitense, nutrito e cresciuto all’ombra del wahabismo saudita. Viceversa, dall’altra parte, formazioni mediatiche e politiche come Al- Mustaqbal ribadiscono la loro militanza a fianco dell’Arabia Saudita, puntando il dito contro Hezbollah e il suo emissario iraniano come principali responsabili del caos regionale nel quale il jihadismo prospera. Nel mezzo, una società civile che prova a esprimersi usando gli strumenti del web, ma che solo raramente riesce ad intaccare la polarizzazione del dibattito alimentata dai media tradizionali.

 

Ha collaborato all’articolo Qais Fares

 

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