The Arab Uprising. The Unfinished Revolutions of the New Middle East

C&C Lynch_Book

La primavera araba non è ancora finita, ma quello che ha già fruttato è un nuovo Medio Oriente. “The Arab Uprising”, ultima pubblicazione firmata da Marc Lynch – professore di Scienze Politiche e Affari Internazionali alla George Washington University, dove è anche a capo dell’Istituto e del programma di Studi sul Medio Oriente – va in libreria mentre ancora le carte dei paesi arabi si rimescolano giorno dopo giorno. Ciononostante un primo cambiamento lo mette nero su bianco già dal sottotitolo “The Unfinished Revolutions of the New Middle East”. Infatti, al di là dei punti interrogativi sugli effettivi rovesciamenti degli status quo, sulle presunte evoluzioni e sulle ipotetiche involuzioni dal punto di vista politico, per i singoli paesi dove ha soffiato il vento dalla rivolta araba c’è la certezza che le rivolte hanno fatto emergere una nuova sfera pubblica araba, diversamente unita e diversamente informata perché connessa. Il paragone è quello con le opinioni pubbliche che, similmente compatte, scesero in piazza in altre epoche: sia quella che, negli anni ’80, si mobilitò per sostenere la prima intifada; che quella, ancora precedente, che prese parte alla cosiddetta guerra fredda araba degli anni ’50. 

A un tempo causa ed effetto dello sciame rivoluzionario che lo stesso Lynch battezzò, agli inizi del gennaio 2011, come “primavera araba” – l’emergere di questa nuova arena è forse l’unica vera e incontrovertibile prova che il Medio Oriente, dall’immolazione di Mohamed Bouazizi, è cambiato. Il suicidio dell’ambulante tunisino che il 17 dicembre 2010, nella cittadina di Sidi Bouzid, si dette fuoco per protestare contro la confisca del suo carretto di frutta, viene velocemente ricordato da Lynch come il gesto che ha dato il via alle rivoluzioni. Un atto considerato periferico – sia nel senso più propriamente geografico del termine, che in quello figurato – che innesca un domino di proteste destinato a raggiungere quasi ogni angolo del mondo arabo proprio grazie alla presenza ancora non così evidente di un’opinione pubblica nuova, di cui lo stesso Mohamed Bouazizi fa già parte.

Giovani frustrati dalla prospettiva di un futuro economicamente buio e stanchi di governi immobili, corrotti e indifferenti ai problemi della popolazione – sono loro la nuova sfera pubblica araba, evoluta, rispetto a quella nata negli anni ‘50 dalla lotta comune contro i colonizzatori, grazie anche alla propria dieta mediatica. Lungi dal mitizzare il ruolo dei social network nella primavera araba – che anzi viene continuamente ridimensionato, Lynch sottolinea come sin dall’inizio del nuovo millennio, con una certa copertura della seconda intifada palestinese prima e dell’invasione americana in Iraq poi, Al-Jazeera si sia arrogata il compito di rafforzare l’unione del popolo arabo. Un popolo già unito non solo dalla condivisione di una lingua – e, in molti casi, anche una religione e/o una situazione politica interna – ma anche dalla sensazione di camminare insieme verso un destino comune. Un destino ora da rafforzare ora da difendere, che si specchia nelle immagini della tv qatarense che raccontano le varie mobilitazioni, inquadrandole nella cornice di un’unica ritrovata piazza araba.

Per ribadire questa unione, Lynch ripercorre gli altri sciami di protesta che hanno caratterizzato la storia del Medio Oriente e del Nord Africa (dalla Guerra fredda araba degli anni ‘50 alle reazioni alla prima intifada nel 1987). I frame e le logiche osmotiche di queste proteste ante-Internet, sono la dimostrazione dell’endemica capacità araba di smuovere tante masse come fossero una sola. Mentre il paragone con quanto successo dal 2011 a oggi è l’evidenza di quanto poco sia cambiata questa stessa capacità, col passare degli anni. Le differenze tra la comunicazione delle trasmissioni radiofoniche o dei giornali, da una parte, e, dall’altra, Twitter, Facebook o Youtube, non si riscontrano infatti nell’efficacia dei messaggi inviati – semmai solo nella velocità di ricezione e di reazione.

 

Negli anni ‘50 e ‘60, durante quella che è stata definita la Guerra fredda araba, il rigetto del colonialismo che guidò il golpe di Nasser riaccese lo spirito panarabo e la volontà di ritrovarsi uno stesso popolo sotto la bandiera di una stessa nazione. Allora, dalle strade e dalle piazze del Cairo, le mobilitazioni si spostarono oltre i confini della Giordania, del Libano, della Siria e dell’Iraq. Alimentate da The Voice of the Arabs – radio megafono del panarabismo predicato proprio da Nasser – e dagli editoriali nella nascente stampa nazionale, oltre che dai pamphlet politici fatti girare nelle scuole e nelle università. Le battaglie della Guerra Fredda araba portarono in pochi anni alla caduta della monarchia in Iraq e alla nascita della fragilissima Repubblica Araba Unita (Rau) che non riuscì a tenere insieme Egitto e Siria per più di tre anni (1958-1961). La vita breve della Rau e la distrazione di Nasser dalle sue ambizioni panarabe una volta alla guida dell’Egitto, furono come un accenno, un anticipo, una prima presa di consapevolezza del fatto che neanche quel sentire comune bastava da solo a mettere in moto le rivolte.

Nell’epoca di Internet, questo stesso sentire comune che da sempre caratterizza il popolo arabo si rafforza in rete. Lo ha esplicitato Lynch nella sua pubblicazione, ricordando il ruolo dei social network nella primavera araba – dalla mobilitazione sui blog e sui gruppi Facebook, al raggiro della censura attraverso la diffusione dei video su Youtube, fino al racconto affidato a Twitter e alla sua grammatica ben precisa. Lo si è riscontrato frequentando gli stessi social network nei giorni delle proteste egiziane che avrebbero portato alla deposizione di Mursi – quando si sono attualizzati gli hashtag del 2011 senza cambiarne la formula e le mobilitazioni si sono spostate da un paese all’altro seguendo il marchio #tamarrod, nuovo collante per una sfera pubblica che continua a inseguire il vecchio sogno democratico.