Islam for Journalists

Islam journalists

È possibile superare il bipolarismo dilagante sui media tra un Occidente autoproclamatosi “democratico e tollerante” e un Islam altrettanto monoliticamente rappresentato come “tirannico e guerrafondaio”? Quali sono gli strumenti migliori per fare informazione su un universo caleidoscopico di oltre un miliardo di fedeli? E in che modo si possono navigare i precetti e le relative interpretazioni che regolano la separazione tra sfera pubblica e privata del mondo musulmano? Queste sono alcune delle domande sollevate da Islam for Journalists, un volume curato da Lawrence Pintak e Stephen Franklin, che raccoglie i contributi di corrispondenti e docenti universitari americani esperti di Islam.

Pubblicato nel 2013 dalla scuola di giornalismo “Edward R. Murrow” della Washington State University, Islam for Journalists si rivolge ai corrispondenti statunitensi con l’intento di fare chiarezza su questo tema in modo obiettivo e scevro da faziosità e stereotipi politico-culturali. Per molti giornalisti e le rispettive audience, l’Islam resta un universo estraneo e ostile. La testimonianza di Andrea Elliott del New York Times contenuta nel primo capitolo segna il passo degli altri contributi, esprimendo l’esigenza di contrastare i preconcetti e la pericolosa disinformazione che trasformano l’Islam in un’“alterità” irriducibile. Sebbene molto si stia facendo in questo senso, un numero imprecisato di “sedicenti esperti” continua a spopolare sui media nordamericani, dove il dibattito e la complessità di una realtà in trasformazione lasciano il posto a un dualismo “riduttivo” che contrappone “critici” a “cheerleader”. I capitoli che compongono l’antologia trattano dunque degli aspetti centrali dell’Islam tra cui il ruolo delle donne (el Feki), l’equilibrio tra le sue “molte facce” (Hefner), fondamentalismo e jihad (Denson), la diffusione negli Stati Uniti (Dana e Franklin) e il ruolo dei nuovi media nell’alfabetizzazione religiosa dei fedeli (Howard). I contributi insistono sull’importanza di equilibrare le fonti, facendo riferimento all’apporto immenso che la stessa comunità di musulmani può offrire ai reporter.

Alla base dello sforzo divulgativo di Pintak e Franklin c’è la volontà di educare i cronisti alla responsabilità giornalistica e all’ etica dell’obiettività, principi che sono spesso sacrificati a favore della semplificazione e della corsa all’ultim’ora. L’immensa visibilità acquisita dall’Islam in questi anni è senz’altro cresciuta di pari passo con il diffondersi d’interpretazioni approssimative. Questa inesattezza ha alimentato l’intolleranza e la paura e innalzato il livello dello scontro sociale di cui la politica si è servita per giustificare operazioni neoimperaliste e di controllo capillare su suolo nazionale e internazionale. Gli attentati del 2001 non hanno solo mostrato la potenza ancora parzialmente sottovalutata del fondamentalismo. Essi hanno evidenziato che lo “scontro di civiltà” di cui scriveva Samuel Huntington nel 1993, si gioca tanto sul piano della guerra materiale, che del conflitto d’opinione. Già in occasione della crisi degli ostaggi che si consumò in Iran tra il ‘79 e l’‘81, Edward Said metteva in guardia i lettori sul potere dei media di condizionare intellettualmente ed emotivamente il proprio pubblico, trasformando l’Islam in un nemico simbolico, un vero e proprio feticcio ideologico. Lo stesso è avvenuto in forma ancora più estremizzata nell’ultimo quindicennio. I principi che ispirano Islam for Journalists sono quindi quelli della documentazione approfondita e all’esercizio della responsabilità etica di chi detiene il potere della parola. Come dichiara Pintak, scrivere di questo argomento nel contesto del post-11 settembre comporta esercitare una distinzione tra divulgazione e condizionamento ideologico. “Il giornalismo non deve essere un’arma. Il fine è informare, non istigare; comprendere, non distorcere. Non è forse questo a distinguerlo dalla propaganda?”

Eppure, questo appello al rigore professionale ha irritato più di cronista e le reazioni alla pubblicazione del volume sono state tutt’altro che positive. Un aspetto interessante e su cui riflettere è proprio la mole di opinioni derogatorie generate dall’antologia che alcuni accusano di abbracciare posizioni filoislamiche e filo-terroristiche.