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La libertà di stampa nel mondo arabo

22/04/2013
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L’esito forse più deludente della Primavera Araba, la rivoluzione scoppiata nel 2011, risiede in quanto poco essa sia riuscita a cambiare il contesto in cui operano i media locali in Medio Oriente.

Fatta eccezione per i soli sistemi statali post-rivoluzione affermatisi in Libia, Egitto e Tunisia, la stampa locale nel mondo arabo continua a soffrire dei soliti vincoli di  autocensura, attenzione a evitare critiche da parte del governo  e marcato rispetto per ampie “linee di demarcazione” nella copertura delle notizie che semplicemente non vengono mai oltrepassate. Di fatto, la reazione del governo in molti Paesi è stata quella di rivedere e delimitare ulteriormente  le leggi in materia di media e comunicazione per essere certi di soffocare la libertà d’espressione sia tra i mezzi di informazione ufficiali che tra gli esponenti del cosiddetto giornalismo civico impegnati nel tentativo di veicolare le notizie da cui i media generalisti si tenevano alla larga.

Le classifiche internazionali in materia di libertà di stampa mostrano come i mezzi di informazione in Medio Oriente operino ancora oggi in un contesto pesantemente viziato da vincoli e restrizioni. Dei diciannove Paesi monitorati dalla  Freedom House di Washington, D.C., solo Egitto, Libia, Libano, Kuwait e Tunisia si sono meritati il titolo di “parzialmente liberi”. Gli altri quattordici e i territori palestinesi occupano saldamente la parte “non libera” della classifica. Soltanto Israele si è aggiudicato la definizione di “libero”, e comunque la sua è una posizione in bilico legata alle preoccupazioni inerenti la censura militare (Reporter Senza Frontiere lo colloca alla stregua dei territori palestinesi, attribuendogli quindi un  punteggio di molto inferiore in termini di libertà di stampa analogo a quello dei suoi vicini arabi). La mancanza di una maggiore libertà di stampa nei Paesi arabi è fonte di grandissima delusione dal momento che una delle lezioni chiave della Primavera Araba riguardava l’aspirazione dell’opinione pubblica a ricevere un’informazione imparziale. Innumerevoli analisi hanno dimostrato come gli abitanti del mondo arabo si siano progressivamente rivolti a YouTube, Facebook e Twitter (oltre che ai canali di informazione internazionali)  utilizzandoli come fonti di notizie perché non si fidano della pesante censura che condiziona l’operato dei quotidiani e delle emittenti radiotelevisive locali dei loro Paesi. Tali soggetti mediatici sono o di diretta proprietà del governo o imprese private ad esso strettamente collegate. E ogni volta che reporter e produttori cercano di praticare un giornalismo imparziale e critico, i procuratori generali sono subito pronti a emettere avvisi di arresto per soffocare ogni esercizio di indipendenza.

Un giornalista giordano ha così sintetizzato il grado di libertà di stampa nel proprio Paese: “Finché uno non scrive del re, dell’esercito, di religione o di sesso può parlare di quello che vuole”. Ovviamente, tutte queste proibizioni rappresentano una mole considerevole di notizie la cui copertura è interdetta, ma molti giornalisti arabi hanno finito con l’accettare i vincoli imposti al libero esercizio della loro professione.

È difficile impostare un discorso generalizzato sui fattori che hanno delineato questo scenario, dal momento che ogni Paese è diverso da quelli limitrofi. Tuttavia, le mie ricerche in ambito legale nel mondo arabo mi permettono di fare qualche considerazione su alcuni tratti più o meno comuni a tutti i Paesi arabi.

In primo luogo, la possibile accusa di diffamazione criminale rappresenta un fattore determinante nel creare un contesto che scoraggia l’esercizio del buon giornalismo. Nei Paesi dove vige una più ampia libertà di stampa, la maggior parte dei casi di diffamazione viene trattata come materia di diritto civile. Un partito che ritiene di essere stato oggetto di diffamazione deposita una querela e ha la possibilità di ottenere un risarcimento nel caso in cui venga dimostrato che le informazioni veicolate erano false e la sua reputazione ne è stata danneggiata.

In tutti i Paesi arabi, la diffamazione è un reato penale. La parte lesa va alla polizia e sporge denuncia. La polizia arresta il giornalista e il caso va a finire in tribunale. A volte, il giornalista resta in carcere in attesa di comparire davanti alla corte. In tribunale, non per forza di cose la verità vale come difesa contro la querela, quindi virtualmente alla parte lesa per vincere la causa basta semplicemente dimostrare che quanto affermato dal giornalista abbia danneggiato la sua reputazione. I pubblici ufficiali sono spesso tutelati da leggi che considerano un’“aggravante” il fatto di diffamarli in relazione all’esercizio delle loro pubbliche funzioni. Anche questo elemento si pone in contraddizione con le norme internazionali, dal momento che in molti Paesi, al contrario,  è più difficile per un pubblico ufficiale vincere una causa di diffamazione proprio per creare un contesto in cui le questioni possano essere discusse più liberamente.

Immaginate di essere un giornalista che abbia scoperto un giro di corruzione e tangenti all’interno di un dipartimento governativo. Visto e considerato il contesto giuridico nel mondo arabo, non c’è da stupirsi che i reporter preferiscano evitare di divulgare la notizia piuttosto che rischiare di andare in prigione con altissime probabilità di perdere la causa, anche nell’eventualità che la loro inchiesta risultasse scrupolosa e supportata da prove.

Un ulteriore fattore che limita l’efficacia della stampa in Medio Oriente è rappresentato dalle leggi che vietano gli oltraggi e le critiche a esponenti di governo o pubblici ufficiali. In non tutti i Paesi vigono entrambi questi tipi di leggi, ma nella maggior parte dei Paesi arabi è proibito insultare i “governanti” (termine alquanto vago, la cui attribuzione può essere applicata in maniera assolutamente generica). Un giornalista che avanzi accuse valide di corruzione a carico della famiglia reale potrebbe facilmente essere accusato di “oltraggio” al re o allo sceicco.

Le accuse di oltraggio sono state utilizzate in parecchi Paesi a seguito dello scoppio delle rivolte scaturite dalla Primavera Araba. In Oman due giornalisti hanno perso la causa che li vedeva accusati di oltraggio a pubblico ufficiale per aver riportato dei casi di corruzione all’interno del ministero della Giustizia. E in Kuwait un altro è stato accusato di oltraggio all’emiro del Paese per alcuni suoi tweet che il governo ha giudicato offensivi.

Gli arresti a seguito di denunce per oltraggio stanno coinvolgendo sempre più gli attivisti dei social media piuttosto che i giornalisti tradizionali. Il trend rispecchia l’evoluzione dei flussi di comunicazione in atto nella regione. Anni e anni di tattiche di repressione messe in atto contro i giornalisti hanno finito per blandirli e confinarli perlopiù in un atteggiamento di compiacente autocensura. Gli attivisti estranei all’ambito del giornalismo tradizionale  si sono invece rivolti ai social media – soprattutto a Twitter – per diffondere informazioni che la stampa locale semplicemente ignora. Nel 2012, il governo degli Emirati Arabi ha accusato cinque attivisti digitali di “oltraggio alle istituzioni” e altri reati per aver avviato un dibattito politico su un forum di discussione di un sito locale. Sono stati tutti condannati a due/tre anni di prigione, ma successivamente il presidente ha concesso loro la grazia.

La maggior parte dei Paesi che proteggono la libertà di stampa l’ha fatta finita con le leggi per “oltraggio”. Non a caso, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha appena annullato in Francia la condanna emessa contro un uomo accusato di aver insultato il presidente francese con una scritta su un cartello. Anche l’ammenda inizialmente comminatagli di 30 euro è stata considerata una limitazione della libertà d’espressione.

Un’altra tattica utilizzata dai governi arabi – soprattutto per quanto riguarda il giornalismo praticato sulle reti di social media – è rappresentato dall’accusa di “diffondere notizie mendaci”. Nei Paesi in cui la stampa è maggiormente tutelata, i tribunali hanno stabilito che le leggi che obbligano alla veridicità dell’informazione sono semplicemente incompatibili con la libertà di espressione. Tutti i giornalisti cercano di mostrarsi il più possibile accurati nella ricostruzione dei fatti, ma nessun reporter o produttore può garantire sull’effettiva veridicità di tutto ciò che viene riportato. La norma giornalistica dell’attribuzione, tanto per fare un esempio, rende una pretesa del genere impossibile da soddisfare. I giornalisti infatti attribuiscono le varie informazioni a diverse fonti, che nella loro ricostruzione dei fatti possono essere o meno degne di fede. Ogni cronista dovrebbe puntare con tutte le sue forze alla scrupolosità, ma una legge che punisca chi non riesce a raggiungere tale obiettivo avrebbe l’unico risultato di incentivare l’autocensura e limitare l’accesso all’informazione da parte dell’opinione pubblica.

Le leggi contro le “ricostruzioni mendaci”, di fatto, hanno un unico effetto: quello di limitare l’informazione. Dopo la Primavera Araba accuse di questo tipo sono state mosse a diversi attivisti dei social media negli Emirati Arabi, in Bahrain, Kuwait e Arabia Saudita. La mossa è vista come una forma di deterrente atta a scoraggiare gli attivisti dei social dal diffondere notizie che la stampa generalista evita attivamente di trattare. In questo modo, per esempio, ai media internazionali e agli osservatori per i diritti umani è stato interdetto l’accesso a una causa per sedizione che ha coinvolto 94 persone negli Emirati Arabi. La stampa locale che si censura da sola è rimasta l’unica fonte di informazioni sul processo, il che ha indotto molta gente a cercare aggiornamenti sul caso sui profili social media. Ma il recente arresto di un attivista dei social trasmette il messaggio che qualsiasi forma alternativa di diffusione delle notizie non verrà tollerata.

Un ulteriore fattore che limita l’operato dei media arabi è rappresentato da tutte quelle leggi vaghe che riguardano la tutela dell’“ordine pubblico”. Nel caso forse più emblematico di adozione di una legge del genere, un giornalista saudita è stato giudicato colpevole e condannato a 50 frustate per aver dato notizia di una serie di interruzioni della corrente elettrica. Il suo servizio – in cui aveva sottolineato come la gente fosse molto infastidita dal guasto sulla linea elettrica al punto da considerare l’opportunità di intraprendere un’azione collettiva – era stato accusato di sobillare le proteste e violare l’ordine pubblico. Molti altri paesi annoverano il mantenimento dell’“ordine pubblico” tra le possibili giustificazioni per l’arresto di giornalisti.

Le giurisdizioni internazionali tendono a creare vincoli d’accusa molto rigidi per poter arrestare qualcuno sulla base di motivazioni legate all’ordine pubblico. Negli Stati Uniti, per esempio, prima che si possa procedere all’arresto è necessario che chi parla stia apertamente incitando a un’“imminente azione illecita”. Tale approccio garantisce ai giornalisti un ampio margine di libertà nell’esercizio della loro professione, senza timore di arresti o intimidazioni.

I governi arabi esigono inoltre che ogni giornalista ottenga una licenza per poter esercitare la propria professione. Molti Paesi si mostrano riluttanti nel concederla, perché il potere di attribuire o meno la licenza può essere sfruttato per influenzare la presentazione delle notizie. Di certo, molti governi della regione con tutta probabilità godono di poter contare su questa leva per indirizzare la professione.

Ma il limite forse maggiore al libero esercizio del giornalismo nel mondo arabo (e ancora una volta scusatemi se parlo in generale) è rappresentato dagli effetti di anni e anni di repressione sugli addetti ai lavori. Molti giornalisti si sono limitati ad accettare di non poter fare in modo appropriato il proprio mestiere e si sono adattati alla situazione. Altri, che hanno raggiunto incarichi di responsabilità all’interno delle redazioni, sono oggi i primi a censurare i giornalisti loro sottoposti. In diverse discussioni con esponenti del settore originari del mondo arabo ho sentito dire che i direttori spesso fanno il lavoro che spetterebbe agli ufficiali di governo, mettendo a tacere sul nascere le storie che ritengono potrebbero creare problemi.

Gli esiti sono sconfortanti. Forse le problematiche attorno a cui ha ruotato la Primavera Araba – disoccupazione, corruzione delle istituzioni, ristagno dello sviluppo economico – avrebbero potuto essere risolte se i media di informazione non avessero chinato il capo davanti alle intimidazioni del governo. Ma tutte queste questioni sono state invece bellamente ignorate da una stampa araba timida e riluttante, e hanno avuto così modo di esacerbarsi.

Ormai stanca dei media tradizionali, la gente si è rivolta a Twitter, Facebook e YouTube per dare e ricevere informazioni imparziali e senza filtri. Ne è derivata un’esplosione dei social media in gran parte del mondo arabo. Libia, Egitto, Tunisia e Yeman hanno visto cadere i propri regimi autocratici di lunga data. I media locali di affiliazione statale non hanno potuto far nulla per proteggerli. E i Paesi che non hanno ancora visto un cambio di leadership si preoccupano per il loro futuro e aspirano a impedire che i social media si trasformino in uno spazio di libertà d’espressione. Quasi tutti questi Paesi si sono resi protagonisti di arresti motivati da esternazioni su Twitter, mandando alla gente un importante segnale del fatto che si aspettano che i limiti vengano rispettati.

Non tutto lo scenario, però, è fosco e cupo. Diversi Paesi stanno facendo progressi nel garantire una maggiore libertà di stampa. La Tunisia è riuscita a mantenere la sua posizione tra gli Stati “parzialmente liberi”, malgrado alcuni casi di arresti e altre azioni contro i giornalisti. I cronisti del posto si stanno guadagnando un’ottima reputazione in termini di libertà e giornalismo responsabile. Anche le notizie che arrivano dalla Libia inducono a un cauto ottimismo.

Purtroppo, invece, l’Egitto pare stia ritornando tra i Paesi “non liberi”. Le domande fatte dalla polizia al comico televisivo Bassem Youssef riguardo al suo presunto aver insultato il presidente Morsi e l’Islam sono abbastanza preoccupanti. Tuttavia, deve rincuorarci il fatto che Youssef non sia finito in carcere, senza contare che l’opinione pubblica egiziana sembra oggi più attenta a eventuali tattiche rispolverate dall’era Mubarak e messe in atto da un leader democraticamente eletto.

Non possiamo aspettarci una transizione senza intoppi che ci faccia passare dalla censura oppressiva alla difesa assoluta della libertà d’espressione dall’oggi al domani. La speranza è che i periodici casi di arresti nei Paesi post-rivoluzione servano a portare una maggiore consapevolezza del valore della libertà di stampa e contribuiscano a mutare l’atteggiamento dei procuratori generali e dell’opinione pubblica rendendoli consci dell’inutilità di tali azioni. Nei Paesi in cui il cambio di regime non c’è stato, nessuno ha fatto sì che si avviasse un cambiamento rispetto al modello di comunicazione a controllo statale. Per questi Paesi, è possibile che si debba aspettare un’evoluzione politica prima di poter registrare progressi significativi in materia di libertà di stampa.

Traduzione dall’inglese di Chiara Rizzo