Il mondo dei media visto dal creatore del “Netflix arabo”. Incontro con Abdelrahman Mansour

15/07/2016
moviepigs

Nel giugno del 2010 Khaled Said, un ragazzo di 28 anni, venne ucciso in un pestaggio dalla polizia egiziana per aver fatto circolare un video di denuncia su atti illeciti compiuti da alcuni poliziotti. Molti identificano questo episodio come la scintilla che fece scoppiare le grandi proteste che poi sfociarono nella rivoluzione che depose l’ex presidente Hosni Mubarak.

Internet e i social network funzionarono come punto di raccolta e cassa di risonanza per la mobilitazione sociale della gioventù egiziana. In particolar modo la pagina Facebook, “Kulluna Khaled Said” (“Siamo tutti Khaled Said”), che tutt’ora raccoglie più di 3.000.000 di likes, funzionò da strumento organizzativo e coordinativo per le proteste del 25 gennaio 2011. Uno degli amministratori della pagina era Abdelrahman Mansour.

Oggi Abdelrahman ha lasciato l’Egitto e vive negli Stati Uniti, dove è Visiting Researcher alla University of Illinois. Lo abbiamo incontrato durante una sua visita a Roma e ci ha parlato del suo nuovo progetto: MoviePigs.

 

Cos’è MoviePigs e come funziona?

MoviePigs è una start-up nata negli Stati Uniti, a New York. È stata fondata da tre persone: me, la collega Perihan Abou Zeid, laureata al MIT di Boston in Business Management, e il collega Hani Al-Kirdani, specializzato in IT in software e programmi. All’inizio, l’idea era quella di creare un hub per film indipendenti provenienti da tutto il mondo, invece poi si è tramutata in una piattaforma tramite cui vogliamo diffondere il cinema arabo a livello internazionale.

Possiamo definirla una versione araba di Netflix, ma quello che vogliamo fare è anche dare più spazio ai giovani filmmakers, ad esempio tramite finanziamenti e raccolte fondi. Vorremmo creare dei blog correlati, dedicati agli attori, ai tecnici, ai registi e dare la possibilità ai giovani talenti di esibirsi, per esempio tramite cortometraggi.

Perché avete scelto questo nome per il vostro progetto?

Il nome è stato scelto in primo luogo da noi fondatori, poi, in un secondo momento, abbiamo messo su un esperimento di marketing per pubblicizzarlo: abbiamo chiesto l’opinione di un campione di 500 giovani arabi e musulmani che vivono negli Stati Uniti, la maggior parte dei quali ha approvato la scelta del nome.

Il nome è sicuramente un po’ provocatorio. Esistono idee abbastanza negative riguardo il maiale nella mentalità araba e noi abbiamo voluto scherzarci un po’ su, cercando di cambiare questi pregiudizi così radicati. Anche perché, nella visione americana, il maiale è il simbolo dell’avidità, della golosità. Infatti il nostro logo consiste in un maialino che sta mangiando dei popcorn, come per dire che grazie a MoviePigs i nostri utenti potranno “sgranocchiare” tutti i film che vogliono!

Cosa vi ha spinto a creare MoviePigs?

Prima di tutto, l’intenzione di modificare l’immaginario, così diffuso, ma così errato, che circonda i personaggi arabi nei film e nelle serie TV occidentali, visti quasi sempre come terroristi o i cattivi di turno.

Io, personalmente, sono un figlio della Primavera Araba e come tale rispetto la diversità che si trova all’interno di qualsiasi società, che sia di tipo politico o religioso. Credo che i film debbano rappresentare e rispecchiare tutte queste diversità in maniera molto più ampia di come non lo facciano ora. Io e i miei colleghi vogliamo creare un ponte tra i giovani della Primavera Araba e quelli degli Stati Uniti. In quest’ottica abbiamo fatto il passo successivo e organizzato l’iniziativa “Arab Cinema Weekend”, che vedrà la sua pima edizione il prossimo settembre a New York e che speriamo di portare anche in altri stati negli USA, così come in Europa e magari anche in Italia.

Per quanto riguarda il contesto in cui si è trovata a nascere quest’idea, la crescita delle dei video on demand fa, secondo me, parte di quella che possiamo chiamare la “democratizzazione” nella produzione dei media: ora in tutto il mondo è l’utente che decide quello che vuole vedere, invece di essere sottomesso al palinsesto di un canale.

I miei colleghi, hanno già preso parte ad iniziative simili. Perihan è stata la fondatrice di un’iniziativa che si è molto diffusa in Egitto a partire dal 2011, il cui nome è Qabila, parola che vuol dire “tribù” in arabo (si tratta di una casa di produzione di media che aiuta a far circolare, sviluppare, creare e produrre nuove idee: www.qabilatv.com Ndr). Invece Hani Al-Kirdani, è stato il responsabile della parte tecnologica in un’altra famosa iniziativa chiamata Tahrir Academy. Si tratta di una piattaforma creata allo scopo di arricchire i giovani a livello culturale, offrendo loro nozioni e strumenti di cui non usufruiscono attraverso l’insegnamento tradizionale.

Si sono aggiunte altre persone alla vostra squadra di lavoro? Che tipo di background hanno?

Come in qualsiasi start-up non siamo in molti. Io e Perihan lavoriamo alla scelta dei film, Hani ha il suo team di persone che lo aiutano con il sito e le attività tecniche. In tutto si tratta di una squadra di lavoro che consiste in 15 persone, tra traduttori, redattori, giornalisti e produttori.

Inoltre, siamo al lavoro su un altro prodotto, che si chiamerà “360.media”, rivolto al mondo arabo e che sarà qualcosa di molto simile a BuzzFeed. Tramite questo progetto vogliamo trasmettere una nuova immagine del mondo arabo, così attuale, non solo nella politica, ma anche in campi quali l’intrattenimento e la tecnologia.

Com’è stato finanziato finora MoviePigs?

Come qualsiasi start-up, all’inizio del nostro progetto abbiamo pensato ai vari problemi legati ai finanziamenti e davanti a noi si sono palesate due possibili opzioni: chiedere dei prestiti, oppure convincere le persone che potevano darci supporto economico a sostenerci. Noi abbiamo scelto questa seconda strada e adesso abbiamo una decina di sponsor che ci danno una mano, alcuni provengono da quello che negli USA viene chiamato angel investment, cioè aiuti e  finanziamenti per progetti di valore etico. Dave McClure, con il suo progetto 500 Startups, è stato il primo a credere in noi.

Inoltre, siamo stati anche attivi nelle nostre piccole cerchie di parenti, vicini, amici e uomini d’affari a cui siamo riusciti ad arrivare. Così facendo siamo riusciti a raccogliere 600.000 dollari. Tra i nostri attuali sponsor, alcuni provengono dall’Egitto, altri dall’Arabia Saudita e dal Libano.

I media sono parte integrante del tuo lavoro attuale, ma hanno giocato un ruolo importante anche nel tuo attivismo politico. Secondo te qual è oggi l’impatto dei media nel mondo?

Questo è uno dei miei argomenti preferiti. Amo parlare di questo perché credo che i media oggi giochino un ruolo fondamentale, che è certamente cambiato con l’avanzare della tecnologia. Prima i mezzi di comunicazione di Stato controllavano tutto, adesso invece anche i giovani, tramite un blog o un account su Twitter, hanno la possibilità di essere la fonte di una storia, di una notizia.

Ad esempio, molti degli episodi di violenza da parte della polizia americana sono stati registrati tramite delle semplici videocamere di telefoni cellulari. Nello stesso caso di Khaled Said o di altri fatti simili in Tunisia, i cittadini hanno fatto la differenza attraverso questi semplici strumenti tecnologici.

Inoltre, credo che i media abbiano ormai oltrepassato la loro funzione tradizionale di mezzi di trasmissione delle informazioni per diventare delle macchine di mobilitazione e di attivismo. Non solo, i mezzi di comunicazione sono passati dall’essere uno strumento autoritario, cioè prodotto dai regimi di Stato e dagli uomini d’affari che di solito hanno a che fare con la politica, all’essere delle piattaforme democratiche, create da giovani che hanno diversi orientamenti politici.

In aggiunta, se in passato la possibilità di avere trasmissioni in diretta era il punto forte delle televisioni, adesso anche un semplice cittadino può usare i social networks per caricare video o dare notizie in tempo reale, facendo così concorrenza ai giganti mediatici che hanno magari più di trenta corrispondenti sparsi in tutto il mondo. Ora, in questo modo, un solo cittadino può fare la differenza.

Credo che, con il passare del tempo, la televisione diminuirà la sua importanza. Adesso internet non è ancora disponibile e così a buon mercato in tutte le parti del mondo, ma andando avanti si espanderà e acquisterà sempre più forza a discapito della televisione, che non avrà più lo stesso peso che aveva un tempo. Certo, lo avrà ancora, ma in maniera ridotta

Tornando a parlare dell’Egitto, ad esempio, voglio dire che quando ci troviamo di fronte a paesi in cui ci sono dei movimenti sociali o delle rivoluzione in corso, i media giocano un ruolo molto importante. Prima, nell’era Mubarak c’erano la televisione di Stato e altri canali TV privati, posseduti da uomini d’affari molto vicini al Regime, i quali dopo lo scoppio della Rivoluzione, hanno avviato e diffuso una campagna mediatica contro gli attivisti, tacciandoli di essere traditori e sovvenzionati dall’estero. La “controrivoluzione” ha provato a creare un finto consenso nei media perché non lo possedeva realmente tra i cittadini, pagando anche milioni in televisioni che ancora ora continuano a trasmettere le stesse foto, gli stessi video di tre o quattro anni fa, dicendo “vedete, era il caos! Sarà di nuovo così se non appoggiamo i militari, se non appoggiamo il presidente Al-Sisi”. Il tipo di narrazione che promuovono non fa altro che seminare odio tra la gente, con il risultato che la società diventa sempre più divisa e noi attivisti ci troviamo non solo in prima linea ad affrontare la repressione delle autorità, ma siamo anche mira di queste televisioni che diffondono falsità nei nostri confronti. Ad esempio, in Egitto ultimamente c’è stata una campagna contro tutte le iniziative di media indipendenti. Nonostante ciò, non ci stancheremo mai di cercare di creare sempre delle valide alternative alla narrazione ufficiale imposta dall’alto ai cittadini.

Come vedi il futuro dei media in Egitto?

Credo che quella dei media in Egitto è una vera e propria battaglia, perché gli apparati di sicurezza provano ogni giorno a dominare i canali televisivi e i giornali, a volte anche tramite l’appoggio di uomini d’affari che fanno parte o si servono del regime militare. Come, ad esempio, l’imprenditore Ahmed Abou Hashima, molto vicino al regime di Al-Sisi, che ultimamente ha comprato uno dei più famosi giornali in Egitto, “Al-Youm Al-Sabea”, e un canale Tv, “ONtv”, per il quale lavorava la giornalista Liliane Daoud, la quale è stata costretta ad andare via dopo il cambio di amministrazione.

Questa battaglia per lo spazio mediatico è molto interessante e credo che, a differenza delle altre lotte politiche per le quali è molto importante essere dentro il Paese per poter mobilitare la gente e creare dei movimenti di protesta per le strade, la battaglia nel campo dei media sia più facile farla dall’estero.

Questo è un momento molto delicato per l’aggressività che il Regime sta dimostrando nei confronti dei media. Abbiamo assistito, per la prima volta, all’irruzione delle forze dell’ordine nella sede del Sindacato dei Giornalisti al Cairo. Lo stesso segretario del Sindacato è ora sotto accusa. Nonostante ciò, tuttavia, esistono delle iniziative forti e indipendenti di media in Egitto, come ad esempio Mada Masr, Al-Manassa e altre piattaforme, che stanno cercando di creare uno spazio mediatico di opposizione.

Credo che, in futuro, il ruolo che i media avranno in Egitto sarà quello di diffondere le verità e rispondere alle bugie e alle falsificazione del Regime. Non voglio usare parole grosse, ma credo che quello che succederà in Egitto sarà una “rivoluzione della consapevolezza e della conoscenza” contro il Regime che cerca di diffondere notizie false e mantenere la gente in uno stato di ignoranza riguardo lo stato reale del paese.

Inoltre, ritengo che i media siano un campo in cui possono dare il meglio sia i nostri amici che si trovano all’interno dell’Egitto, sia quelli che come me hanno preferito andare all’estero per allontanarsi dal giogo di questo regime dittatoriale.