I social media che scuotono il Golfo

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I paesi del Golfo stanno vivendo una nuova, potente ondata di attivismo veicolato dai social media. Un fenomeno per molti aspetti derivante dalle dinamiche della Primavera araba, che rappresenta una spina nel fianco per i sostenitori dello status quo sociale e politico nella regione.

Nuova generazione 
All’interno del mondo arabo, i paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo occupano le prime posizioni per numero di utenti Facebook e di iscrizioni a Twitter. Per quanto riguarda il comportamento online, è utile distinguere tra utenti “vecchi” e “nuovi”. Si tratta di categorie che prescindono dall’età anagrafica, in quanto entrambe appartengono in primo luogo al bacino giovanile (15-30 anni, attualmente il 70 percento degli utenti Facebook nel mondo arabo). 

Per “vecchi” si intendono infatti gli utenti attivi da più di un anno, meno fiduciosi nelle potenzialità della rete e più attenti a non incorrere nella reazione delle autorità: un atteggiamento prudente che può spingersi fino alla decisione di chiudere i propri profili e blog. Un fenomeno tuttavia più che compensato dalle iscrizioni: l’attivismo sociale e politico continua a rappresentare l’attitudine principale tra gli internauti, grazie soprattutto alle “nuove generazioni” desiderose di sfruttare anche le potenzialità politiche della rete.

Buona parte dei nuovi utenti si iscrive oggi alla versione in lingua araba dei social network. Ciò determina l’espansione di tali piattaforme al di fuori delle fasce più istruite, conquistando buona parte di chi era stato fino ad oggi scoraggiato dal carattere troppo americano delle stesse. Con l’eccezione dell’Arabia Saudita – 58 percento degli utenti Facebook sulla versione araba – nella maggior parte dei paesi in questione rimane prevalente la lingua inglese, per la presenza di ampie comunità di immigrati anglofoni.

Impatto oltre la rete
Il successo dei social media nella regione apre un nuovo filone di ricerca sull’influenza della socialità virtuale su quella reale. Un primo, autorevole contributo proviene dai ricercatori della School of Government di Dubai, autori di un rapporto che identifica tra le prime conseguenze una maggiore apertura nei confronti delle opinioni e dei valori altrui. La ricerca sottolinea inoltre un marcato rafforzamento dell’identità nazionale dell’internauta, seguita da quella globale e al terzo posto da quella religiosa, inducendo gli autori a teorizzare il contributo dei social media nell’attenuazione dei contrasti di natura religiosa.

Il panorama delle frequentazioni on line negli ultimi mesi si è notevolmente arricchito, affiancando a critiche e rivendicazioni un attivismo improntato a impegno civico e sviluppo locale, come dimostra la diffusione dell’imprenditoria sociale [1], sostenuta da numerose iniziative sia pubbliche che private, in particolare negli Emirati, in Qatar e in Kuwait.

Non mancano tuttavia i richiami sulle possibili derive di questo nuovo attivismo mediatico. Il noto opinionista ed esperto di media Sultan Al Qassemi [2] (che vanta oltre 150 mila iscritti al proprio canale Twitter) nota una nuova forma di “maccartismo” virtuale, consistente nel diffuso ricorso all’accusa di essere dei “traditori”. Quest’abitudine, forse un’evoluzione dell’antica pratica del takfir – il meccanismo di discredito del prossimo tramite l’accusa di eretico o miscredente – rischia di condurre ad accuse che Al Qassemi paragona a quelle del Senatore McCarthy. 

Tra repressione e partecipazione
Le risposte dei governi all’attivismo sociale e politico varia molto da un paese all’altro. In alcuni paesi prevalgono censura, repressione e rifiuto del dibattito. Questa strategia, di cui il sostenitore più convinto è forse il re del Bahrain, attraversa un po’ tutta la regione. Gli attivisti dei diritti umani rivolgono pesanti accuse anche al Qatar, additato da Human Rights Watch per l’applicazione di un doppio standard tra contestazione politica all’interno e al di fuori della regione del Golfo.

Alcune autorità hanno iniziato ad appropriarsi del linguaggio dei social media, ad esempio per rispondere ad accuse giudicate infamanti. È questo il noto caso dell’utente Twitter saudita Mujtahidd (“studioso” in arabo), con oltre 800 mila iscritti su Twitter, dove ha rivelato un considerevole numero di imbarazzanti retroscena relativi alla gestione degli affari pubblici da parte di membri della famiglia reale e del governo, guadagnandosi così la fama di “Julian Assange saudita”. 

L’inarrestabile avanzata dei social media, con la propria vocazione allo sviluppo politico, rappresenta una sfida che trova impreparata gran parte dell’élite al potere nei paesi del Golfo. La “discesa in campo” virtuale di un numero crescente di autorità con l’esplicito desiderio di creare un canale di dialogo con i cittadini – è il caso ad esempio di diversi parlamentari del Kuwait e di alcune autorità degli Emirati – può senz’altro arricchire la qualità del dibattito ma, al pari della repressione e dell’elargizione di denaro alle classi più deboli, non può che posticipare lo scoppio di nuove ondate di protesta in assenza delle sempre più urgenti riforme politiche ed economiche.

L’articolo è stato originariamente pubblicato sulla rivista Affari Internazionali

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[1] Elizabeth Buckner, Sarina Beges e Lina Khatib, Social Entrepreneurship: Why is it Important Post Arab Spring? Online Survey Report, Program on Arab Reform and Democracy Center on Democracy, Development, and the Rule of Law (CDDRL) Stanford University, Stanford, California, marzo 2012.

[2] Sultan Sooud Al Qassemi, McCarthyism in Gulf social media, Gulf News, 24 aprile 2011 – http://gulfnews.com/opinions/columnists/mccarthyism-in-gulf-social-media-1.798619.