Palestina terra di blogger. Le nuove tecnologie, internet e social network stanno dando nuova voce a chi spesso è stato costretto al silenzio. È il caso di giovani palestinesi che in rete hanno scovato il luogo adatto alla critica e all’informazione, spesso drammaticamente ridotte nei media tradizionali a causa dell’occupazione israeliana e la censura interna.
Da Gaza alla Cisgiordania, da Gerusalemme ad Haifa, il numero di blogger palestinesi in pochi anni ha toccato quota 3.400 [1] siti attivi. Il 25% scrive in inglese [2]– un modo per aprirsi al resto del mondo – e il 45% sono donne. C’è chi ha fatto il salto di qualità diventando un punto di riferimento per giornalisti e attivisti stranieri. Basta pensare a +972mag, sito che mette insieme blogger israeliani e palestinesi, o a Beyond Compromise, gestito da giovani palestinesi e rifugiati nei paesi arabi.
In molti casi stupisce la quantità di informazioni e la qualità delle analisi fornite dai blogger, diventati presto cruciale risorsa dei media indipendenti. I blog si sono trasformati in uno strumento chiave dello scambio di informazioni tra un’enclave e l’altra (come nel caso dell’ultima operazione militare israeliana contro Gaza, “Colonna di Difesa”, nel novembre 2012), ma soprattutto del mantenimento delle relazioni sociali con i milioni di rifugiati palestinesi all’estero nella diaspora. Il blog è divenuto lo spazio di condivisione di notizie e critiche, in una realtà di divisione geografica, territoriale e comunitaria [3].
I blog ospitano racconti di vita quotidiana, piccoli documentari amatoriali, gallerie fotografiche, analisi politiche. A dare forza al nuovo fenomeno è stata senza dubbio l’esperienza delle Primavere Arabe, seppure la realtà palestinese sia in parte diversa. Molti blog sono stati aperti prima delle rivoluzioni tunisina ed egiziana, il numero di utenti Facebook nei Territori Occupati è uno tra i più elevati del mondo arabo [4] e i temi trattati vanno al di là della sola attualità.
Perchè l’obiettivo è un altro, almeno in parte: dare voce alla narrativa palestinese, spesso schiacciata da quella preponderante israeliana, senza far riferimento ad alcun partito o fazione politica. Molti blogger si autodefiniscono “artisti della resistenza”, creatori di spazi dove la gente condivida esperienze, pensieri, idee politiche, analisi riguardanti sia la realtà dell’occupazione militare che le questioni interne palestinesi, dalla divisione Hamas-Fatah alla censura imposta dall’Autorità Palestinese a Ramallah e dal governo islamista nella Striscia di Gaza.
Arresti, vessazioni, minacce, aggressioni fisiche sono tra le principali forme di repressione della libertà d’informazione. La legge palestinese sulla stampa risale al 1995 e vieta la censura, tranne nei casi in cui l’attività giornalistica sia un pericolo per l’unità nazionale, termine vago che permette un’applicazione a dir poco soggettiva.
La conseguenza è l’ormai strutturata debolezza dei media palestinesi tradizionali, costretti da auto-censure, pressioni politiche o mancanza di fondi a fornire informazioni parziali e a limitare il proprio lavoro a report sulle violazioni israeliane. Non è facile fare il giornalista nei Territori Occupati, al 146esimo posto nella classifica 2013 della libertà di stampa redatta da Reporter Senza Frontiere: i giornalisti sono spesso il target sia dell’esercito israeliano che della polizia palestinese.
Tra gli strumenti più utilizzati per mettere sotto silenzio la stampa c’è il fattore economico: ai giornalisti “scomodi” vengono imposte multe salate o vengono distrutte costose attrezzature che rendono impossibile proseguire il lavoro, anche a causa delle mancanze strutturali della stampa palestinese. Salari bassi e scarsi finanziamenti impediscono una formazione professionale reale dei giornalisti palestinesi che spesso preferiscono arenarsi su numeri e statistiche, sul racconto di arresti e violenze, piuttosto che perdere settimane di tempo per reportage mal retribuiti [5].
Così, negli anni la figura del giornalista è stata in parte sostituita da social network e blogger, una rete in continua crescita che supera le barriere fisiche e mette insieme Gaza, Cisgiordania, la Palestina del ’48 (l’attuale stato di Israele, ndr) e i campi profughi all’estero. Nei Territori Occupati, a coprire il gap sono proprio i blogger, giovani che vivono nei villaggi e nelle città di Gaza e Cisgiordania, testimoni oculari che con in mano penna e videocamera si ritrovano a svolgere il lavoro dei media mainstream. È il caso del villaggio di Nabi Saleh, in Cisgiordania, teatro di manifestazioni settimanali represse costantemente dalle forze militari israeliane: scomparsi i media tradizionali, a fare informazione sono i residenti locali. O il caso di Bil’in, salito all’onore delle cronache grazie al film “Five Broken Cameras”, progetto partito in sordina come forma di memoria collettiva della resistenza locale e giunto a guadagnarsi una candidatura alla notte degli Oscar.
La domanda che resta da porsi è: i blog possono essere una delle forme di cambiamento della realtà attuale? Difficile dirlo. Sicuramente la maggiore diffusione di informazione e il più ricco scambio di idee, analisi e esperienze tra i giovani palestinesi dentro e fuori la Palestina storica garantisce loro di mantenere viva l’identità di popolo (i blog in arabo) e di aprirsi una finestra sul mondo (i blog in inglese), per sfatare stereotipi triti, ma ormai radicati nell’opinione pubblica internazionale. Che questo possa avere un qualche effetto sulle politiche interne e su quelle israeliane è un obiettivo lungi dall’essere realizzato.
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[1] Dati UNIEM – Union of International Electronic Media
[2] Alcuni dei blog in inglese più seguiti:
http://beyondcompromise.com/;
http://ingaza.wordpress.com/;
http://occupiedpalestine.wordpress.com/;
http://livefromoccupiedpalestine.blogspot.com/;
http://www.gazamom.com/;
http://www.angryarab.blogspot.com/;
http://tabulagaza.blogspot.com/
[3] Intervista personale a Yasir Tineh, blogger di Beyond Compromise, dicembre 2013
[4] Nei Territori Occupati il 25% della popolazione ha un account Facebook – contro il 18,2% dell’Arabia Saudita, 16,2% dell’Egitto, il 13,5% della Libia e il 12,3% dell’Algeria. (Dati Dubai School of Government, maggio 2013)
[5] Intervista personale a Maath Musleh, giornalista palestinese che pubblica su Al-Jazeera e Al-Akhbar, fondatore del blog “Beyond Compromise”