Usa e Uk pazzi per i “Middle Eastern drama”

08/10/2014
T1

Il 2014 è stato l’anno del “Middle Eastern drama”. Sia negli Stati Uniti che in Gran Bretagna, questa classe di serial televisivi spionistico-drammatici che affronta i temi della storia mediorientale ha sbancato. A dire delle produzioni, queste serie di qualità intendono sondare il lato umano” degli eventi storici in modo “imparziale” con uno stile realistico, avvalendosi di riprese sul posto (quando possibile) e impiegando un cast di professionisti, tra cui molti volti noti di Hollywood. La sovrapposizione di realtà e finzione e la scelta del soggetto narrativo rimandano ai political drama prodotti e pluripremiati sull’ondata emotiva dell’11 settembre, come 24, The West Wing e Homeland. Questa volta, però, le vicende si svolgono oltre il confine nazionale statunitense e la parola è affidata (anche) ai protagonisti locali. Il risultato è una serie di narrazioni svincolate dai tropi tradizionali del racconto eroico, che esplorano il compromesso tra morale e sopravvivenza e il tema della sicurezza internazionale dall’altro lato della barricata.

Come spesso accade con le serie, i “Middle Eastern drama” stanno suscitando reazioni diverse. Gli esperti, in particolare, elogiano lo sforzo di imparzialità, i toni “sfumati” e il focus sul presente storico, mentre una larga parte del pubblico li accusa di riprodurre molti degli stereotipi dell’orientalismo moderno. Per esempio, il debutto americano di Tyrant ha scatenato polemiche tali da costringere la produzione ad assumere un regista palestinese, e reazioni altrettanto accese hanno accompagnato anche la premiere britannica di The Honourable Woman. In entrambi i casi, una fetta dell’audience ha accusato le produzioni di alimentare il preconcetto di un Islam sanguinario e misogino.

 

Tyrant

Tyrant, prodotto e trasmesso dall’emittente nordamericana FX lo scorso agosto, racconta la storia del ritorno in patria di Baysam “Barry” Al-Fayeed, un pediatra di origini mediorientali emigrato in California, e della sua famiglia americana. Le nozze del nipote Ahmad riportano gli Al-Fayeed ad Abbudin, la patria della dittatura fittizia da cui Barry è fuggito appena ventenne, rendendoli prima testimoni, e poi partecipi, delle sorti tumultuose del paese, governato militarmente dal patriarca Khaled. La morte di quest’ultimo sopraggiunge improvvisamente durante una sollevazione popolare contro la dittatura, lasciando a Barry e a suo fratello maggiore Jamal, rampollo feroce e capriccioso, la responsabilità di pacificare il paese. Il compito di Barry sarà traghettare Abbudin verso la democrazia e la pace, sventando le prevedibili intromissioni di chi, come Jamal, vorrebbe preservare lo status quo.

I metodi violenti con cui Khaled e Jamal soffocano la ribellione popolare ricalcano i fatti accaduti in Tunisia, Egitto, Yemen, Siria durante le cosiddette “primavere arabe“. Howard Gordon, produttore e creatore di Tyrant, ha svelato che la serie si ispira alla rivoluzione egiziana e alle altre “primavere arabe”, di cui desidera mostrare “il volto più umano”. Il produttore spera che la rappresentazione, anche se romanzata, di un paese spaccato tra tirannide e slancio democratico possa mostrare gli “errori dell’interventismo americano” in Medio Oriente e i drammi morali del potere. Non si tratterebbe, quindi, di riprendere in chiave semi-documentaristica dei fatti storici, quanto di lanciare una riflessione più ampia sulla necessità di difendere i valori universali della libertà e dell’autodeterminazione dei popoli. E a chi affidare questo compito se non a Barry, il protagonista arabo pienamente occidentalizzato, che fa da portavoce e coscienza critica della serie. Il suo sguardo, che si posa con orrore su un paese agonizzante, condannato al silenzio dalla violenza dei governanti, incarna l’opinione di un pubblico che difende l’esportazione acritica del modello democratico.

Nonostante Gordon abbia dichiarato di voler rappresentare il Medio Oriente in tutta la sua “complessità”, il mondo di Tyrant è manicheamente suddiviso in buoni e cattivi e Barry, pur agendo sul confine dei due mondi, nativo e straniero allo stesso tempo, non sembra avere i mezzi per mettere in discussione l’idealismo democratico che ha imparato ad apprezzare negli States. Dall’altro lato della barricata c’è spazio solo per terroristi, affaristi corrotti, donne sottomesse, e fanatici, in una riproduzione acritica di stereotipi e cliché culturali. Come ha osservato Ibrahim Hooper del Council of American-Islamic Relations, il fatto che la produzione si sia ispirata alle atrocità perpetrate da Saddam Hussein, Bashar al-Asad e Muammar Gheddafi non basta a giustificare che, in Tyrant, anche “gli arabi ‘buoni’ in realtà sembrano cattivi”. L’effetto è una narrazione appiattita sul doppio stereotipo di una cultura indolente, da una parte, e sanguinaria dall’altra, uno stereotipo che, in quanto tale, diventa il modello rappresentativo dell’universo arabo-musulmano nel suo insieme. Sembra, a questo punto, che nemmeno la consulenza del Muslim Public Affairs Council, dell’associazione Muslims on Screen and Television e di un regista palestinese, bastino a curare Tyrant della peculiare malattia del “whitesplaining.” Come osserva un critico, Barry sembra essere tornato in patria solo per “giudicare, condannare ed emancipare i suoi familiari dalla ‘barbarie’”.

 

The Honourable Woman

Dall’altro lato dell’Atlantico, la miniserie The Honourable Woman (trasmessa da BBC 2 e Sundance Television negli Usa) ha scatenato polemiche simili. Per la critica si tratta di una serie “coraggiosa”, che sonda “senza pregiudizi” gli effetti del conflitto israelo-palestinese sulla coscienza e i destini di una famiglia di filantropi anglo-israeliani. Il tempismo della distribuzione ha accresciuto questo ritorno di critica: il primo episodio è stato trasmesso il 3 luglio, all’acme della più recente ondata di bombardamenti israeliani su Gaza. E la spirale di violenza che, sullo schermo, risucchia Londra, Ramallah, Gerusalemme e Washington punta il dito sulla responsabilità della comunità internazionale nel precipitare della crisi palestinese.

The Honourable Woman è un noir ambientato tra la Gran Bretagna, Israele e Gaza e incentrato sul personaggio di Nessa Stein, israeliana erede dell’impero economico che il padre, assassinato anni addietro da un militante palestinese sotto i suoi occhi, ha creato vendendo armi all’esercito israeliano. Il trauma della morte dell’uomo, affiliato a sua volta a una frangia estremista del nazionalismo israeliano, spinge Nessa e suo fratello Ephra a convertire l’attività di famiglia in un’opera filantropica per la pacificazione tra i due popoli. Ma le buone intenzioni profuse nell’iniziativa si scontrano con gli interessi di altri gruppi che operano nella regione. Il Mossad, la Cia, l’MI5, l’Autorità Palestinese, Fatah e Hamas, sono alcune delle forze contro cui Nessa combatte la sua battaglia senza speranza, segnata da una violenza che si irradia ben oltre i Territori Occupati e che coinvolge i protagonisti in un dramma che intreccia appartenenza, fedeltà, accoglienza e sicurezza internazionale.

The Honourable Woman è dunque una storia con una morale che interpreta il presente servendosi del tropo narrativo del Bildungsroman. La perdita dell’innocenza di Nessa, provocata dallo stupro subito da un militante di Fatah a Gaza e dalla maternità che le viene poi negata (Kasim, il figlio nato dalla violenza è affidato ad Atika, interprete e amica della protagonista), segna l’evoluzione del suo personaggio, ma anche l’involuzione del processo virtuoso che gli Stein promuovono nei Territori. Il rapimento e lo stupro mettono in moto una serie di eventi che culminano nel rapimento di Kasim e in un’ondata di omicidi ad opera dei servizi segreti internazionali e di alcuni gruppi di estremisti. Questa sovrapposizione della trama intimo-affettiva con il fallimento dei tentativi di pace mette in evidenza le difficoltà dei protagonisti di rimanere umani in presenza di eventi tragici e apparentemente illogici. D’altronde, l’attenzione allo scotto emotivo del conflitto è dichiarata già nel titolo. Honorability, traducibile con “onestà” e “dignità”, è il principio sensibile che, dichiara la produzione, manca ai dossier e ai resoconti tattico-strategici che riceviamo dalla regione. Nessa ed Ephra sono rappresentati come vittime di uno straniamento che va oltre l’esperienza di una metaforica “erranza” giudaica. La trama procede per svelamenti: i segreti che i due fratelli nascondono l’una all’altro li allontanano, eclissandoli anche dalla scena pubblica. Intanto, una violenza irrefrenabile finisce per sopraffare tutti, trasformando i protagonisti nelle pedine impotenti di un gioco fatalistico di sopraffazione. 

Come anche per Tyrant, The Honourable Woman s’impegna ambiziosamente a raccontare la storia del Medio Oriente e non sorprende che lo sforzo abbia colpito il pubblico, per il quale la visibilità mediatica della regione si ferma ai resoconti giornalistici e alcuni, sporadici documentari sulla storia coloniale della regione. Il New York Times giudica positivamente l’“imparzialità” di una sceneggiatura “scevra da provocazioni” in cui buoni e cattivi esistono da entrambe le parti, mentre per il Guardianautenticità” e realismo affrancano la serie da qualsiasi pregiudizio. Queste osservazioni riflettono la posizione del regista e produttore Hugo Blick per il quale israeliani e palestinesi sono ugualmente responsabili della tragedia che si sta consumando nei Territori, e tutelano la BBC da possibili accuse di faziosità. Ma questo esercizio d’imparzialità è anche e soprattutto una scelta che getta una luce sulle politiche culturali dell’emittente britannica. Commemorare le vittime in modo “equidistante” e ignorare il ruolo di Israele significa negare la storia del conflitto: una posizione insostenibile, alla luce dei massacri contro i civili compiuti dall’esercito israeliano proprio nelle settimane in cui andava in onda la serie.

Dunque, se The Honourable Woman concede uno spazio mediatico alla causa palestinese, non per questo ne fornisce una rappresentazione autentica. Al contrario. I protagonisti palestinesi, ad eccezione di Atika, sono schiacciati sugli archetipi narrativi del militante disperato, disposto a tutto per annientare l’oppressore, finanche a usare lo stupro come arma di guerra (una strategia di cui non esistono testimonianze nella storia del conflitto), e della vittima inerme, grata e bisognosa del sostegno concessole dai più potenti. Inoltre, in un paradossale rimando metatestuale, la visibilità dell’Autorità Nazionale Palestinese nella serie ne evidenzia la tragica assenza dagli schermi, dove le viene negato sistematicamente il diritto di apparire come interlocutore politico. 

 

Dieci anni di political drama sul Medio Oriente

Leggendo le dichiarazioni dei produttori e le recensioni entusiastiche pubblicate dalla stampa si ha l’impressione che la volontà di fare spazio all’esperienza dell’“altro” abbia corretto la rotta di una cultura popolare patriottica e autoreferenziale, rendendo giustizia alla “complessità” dei sentimenti e degli interessi in gioco sullo scacchiere internazionale. Ma non è così. Come scrive Jack Shaheen proprio riguardo le rappresentazioni negative della cultura e dei protagonisti arabi nei media americani, la fiction televisiva è uno strumento politico che beneficia anche del sostegno economico del governo. 

Le serie hanno sempre dato forma all’immaginario collettivo, fornendo all’establishment gli strumenti per diffondere la propria idea di americanità. Lo scoppio della guerra al terrorismo non ha fatto altro che intensificare la cooperazione tra governo e industria dello spettacolo, trasformando anche i “Middle Eastern drama” in uno strumento di propaganda.

Non sembra casuale che la paternità di Tyrant sia di Gordon, già ideatore di 24, e Gideon Raff, autore di Homeland, due serial ambientati nel mondo dello spionaggio e impregnati di temi cari all’intelligence. In entrambi i casi, il governo Usa ha fornito la propria consulenza per la sceneggiatura, chiedendo esplicitamente che le produzioni “immaginassero nuovi scenari di guerra”. Il fine sembra fosse quello di sottoporre una visione alternativa del conflitto all’attenzione degli esperti dell’anti-terrorismo, e così potenziare le strategie di prevenzione e risposta agli attacchi asimmetrici. Se, come ha dichiarato Gordon, Tyrant è l’ultimo tassello di un piano creativo che, partendo da 24, segue l’evoluzione della situazione mediorientale, non stupisce che i “Middle Eastern drama” offrano una visione diversa della guerra al terrorismo da quella trasmessa dieci anni fa. Negli anni della presidenza di George W. Bush la televisione ha assolto una funzione educativa e contenitiva, sottoponendo al pubblico degli scenari semi-apocalittici con l’obiettivo di alimentare una cultura ultra-patriottica della sorveglianza e del sospetto. L’ultima amministrazione Obama proietta il rischio oltre il confine. Il Medio Oriente dei nuovi drama è oggi un calderone che ribolle sotto la spinta dell’anarchia interna: gli ‘arabi’, adesso, stanno lottando tra loro e l’esercizio rappresentativo sembra non chiedere altro che non vengano abbandonati a se stessi.