Twitter in difesa delle principesse saudite detenute

31/03/2014
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Nel pieno culto dell’attivismo digitale si inserisce l’inedita voce di dissenso che nelle scorse settimane ha scosso il Regno dell’Arabia Saudita. Il 10 marzo il domenicale londinese Sunday Times ha pubblicato una dichiarazione che denunciava la segregazione di quattro figlie del re Abdallah tenute ostaggio nella prigione dorata del royal compound di Jeddah da ormai 15 anni.  “Passiamo i nostri giorni tentando di rimanere a galla. Facciamo lavori in casa, ci prendiamo cura dei nostri animali domestici, cuciniamo, leggiamo” scrivono le due donne in una email, mentre Sahar spiega inoltre che il re, che ha almeno 38 figli da diverse mogli, ha dato mandato a tre dei loro fratellastri di controllarle. Il domenicale britannico riferisce anche come la madre delle due donne, Alanoud Alfayez, che ha divorziato dal sovrano saudita e vive a Londra, si sia rivolta all’Onu per far presente la condizione delle figlie, parlando anche della sofferenza di Hala e Maha, altre due sorelle di 39 e 41 anni, che vivono a loro volta isolate in altre due ville, sottolineando che Hala soffre anche di anoressia e problemi psicologici e che è riuscita a contattare la madre dopo due anni di silenzio.

Il caso si è rivelato l’ennesima denuncia volta all’autocratico re che, in un regime di falsa apertura al dialogo e alla modernizzazione, ha invece imposto forme sempre più retrive di dittatura che non hanno risparmiato neppure la propria prole. Il fatto è eclatante, se si considera l’impatto mediatico che un evento di tal genere ha potuto avere sui media internazionali, poiché, nel pieno rispetto del passaggio dal web 2.0 agli esseri umani 2.0,  questa volta a muovere le fila dell’accusa sono voci assolutamente nuove di dissenso. Si tratta di voci più graffianti, poiché vengono da donne e, ancor di più, da donne della stessa famiglia Saud. Verrebbe da dire che le principesse hanno smesso di aspettare il principe azzurro di una consolidata tradizione favolistica deputato al loro salvataggio, e hanno preferito lottare da sole, con i mezzi a propria disposizione, per uscire da uno stato di reclusione che dura da più di un decennio. Sahar, 42 anni, e Jawaher, 38, figlie della ex moglie del re Abdallah, Alnaud Alfayez, che da anni vive a Londra, si sono fatte promotrici di un’insolita battaglia per la loro libertà che passa sul web e che dal web prova a raccogliere consensi.

In principio fu la stampa: gli e-journal del mondo arabo, sia in inglese che in arabo, hanno fatto rimbalzare la notizia divulgata dal Sunday Times. In più di un caso, tuttavia, si è semplicemente trattato di quelli che nel gergo giornalistico potrebbero essere definiti come pezzi di terzo taglio: le varie testate si sono limitate alla pura trasmissione della notizia, che, almeno a giudicare dalla nuova forma di approvazione mediatica che si misura in “cinguettii” e “mi piace”, non ha riscosso che timide reazioni. Né su Al-Bawaba, o Ahrar al-Hijaz, come su Al-Quds o Misr al-Arabi, solo per citare alcuni esempi, compaiono commenti al comunicato stampa, che raccoglie invece qualche forma di consenso su Panarabs, passando attraverso qualche condivisione su diversi siti, sino ad arrivare al maggior numero di “mi piace” su Al-Jomhoor.

Tuttavia non è qui che passa, principalmente, la protesta messa in atto dalle figlie del re saudita. Il sorprendente incrocio tra l’ultratradizionalista e l’ultramoderno si consuma sui social network e, in particolare, su twitter. Seguendo l’hashtag #FreeThe4, Sahar (@Art_Moqawama) e Jawaher (@Jawaher1776), con l’aiuto della madre (@AlanoudDAlfayez) stanno portando avanti una decisa battaglia di denuncia dalla prigione fintamente dorata in cui sono rinchiuse. Quella che recentemente l’ambasciatore statunitense Frod Fraker in Arabia Saudita si è limitato a considerare come una “questione di famiglia”, si arricchisce, di giorno in giorno, di nuovi, drammatici, particolari, messi a nudo anche da un video inviato a Channel 4 News. Ed è tutto un botta e risposta di rumorosissimi cinguetti ad ogni richiesta d’aiuto postata sul web. Alla denuncia di Sahar per il divieto loro imposto di uscire anche per comprare dei medicinali, volendo solo attenersi alle risposte provenienti presumibilmente da arabi, c’è il parere di chi definisce senza mezzi termini i carcerieri “nemici della virtù”, o chi, ancora, rinnova l’esortazione a confidare in Dio e nella sua protezione, come a sperare che presto l’alba possa per loro giungere. A questo fronte, per così dire, più tradizionalista, rispondono poi messaggi di entusiastica empatia di chi le spinge a lottare e a fare, della loro, battaglia, simbolo di tutte le altre rivendicazioni che le donne saudite stanno portando avanti negli ultimi anni. Se l’ex regina attacca senza mezzi termini il sovrano saudita, accusandolo di “usare le figlie come capro espiatorio per dare prova ulteriore del suo famigerato potere”, le risposte non si fanno attendere, passando tra ri-cinguettii e segnali di approvazione di chi è pronto ad affermare che non potrà esserci alcuna rivoluzione araba senza passare prima dall’ottenuta emancipazione della donna. Ciò che contraddistingue questa forma di denuncia è una sorta di crescente coraggio: le rivendicazioni si fanno via via più ardite e si spogliano delle remore che in altri tempi avrebbero fatto rientrare immediatamente la protesta. Jawaher non ha paura di accusare i media che hanno ricondotto la notizia della loro segregazione entro i binari del “presumibile”, denunciando parimenti un modo di far notizia “ragionevolmente” volto a proteggere l’immagine istituzionale. E più spudorata si fa la voce di entrambe le principesse quando, contrariamente alle loro aspettative e all’appello della madre, il Presidente statunitense Barack Obama ha proprio di recente accettato di incontrare un re che, a loro stesso dire, “se fa questo alle proprie figlie, cosa sarà allora in grado di fare agli altri?”.

Oggi, mentre scrivo, le principesse continuano la loro campagna: hanno capito da ormai troppo tempo che non c’è principe azzurro, per loro, disposto a salvarle, ma il web, in qualche modo, si è “auto-investito” di questa missione.