Siria e giornalismo: le difficoltà dei reporter dentro e fuori il confine

10/04/2013
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Per un giornalista la Siria è attualmente il Paese più pericoloso da coprire. Più di trenta reporter stranieri e locali sono stati uccisi in circa due anni di violenze. Molti altri, come è stato il caso dei colleghi italiani di recente sequestrati da un gruppo di fondamentalisti nel nord del Paese sono stati dissuasi dal proseguire il lavoro da forze del regime o da sigle che, almeno a parole, si presentano ostili al potere degli Asad. Alcuni giornalisti stranieri sono stati rapiti e, da mesi, di loro si sono perse le tracce. Dopo aver illustrato il panorama delle fonti indirette disponibili a chi non si trova sul luogo degli eventi, presento qui una serie di riflessioni sul lavoro di giornalista in Siria, frutto di interviste con quattro tra inviati, corrispondenti e fotoreporter italiani che sono entrati, o hanno tentato di entrare, nel Paese degli Asad.

Difficoltà senza precedenti? Ad Alberto Zanconato, corrispondente dell’agenzia Ansa per il Medio Oriente e capo dell’ufficio regionale di Beirut responsabile, tra l’altro, di seguire le vicende siriane, le autorità siriane non hanno ancora concesso il visto d’ingresso dopo che la domanda è stata presentata mesi fa. Per Zanconato, «la questione Siria presenta delle difficoltà senza precedenti, anche perché la capacità propagandistica di entrambe le parti rende di fatto impossibile appurare al cento per cento quel che viene riferito. E si finisce per usare sempre le stesse fonti: l’Osservatorio nazionale per i diritti umani, i Comitati di coordinamento locali degli attivisti, l’agenzia ufficiale Sana». Il caso siriano è molto diverso dagli altri anche per Alessio Romenzi, fotoreporter di recente premiato al concorso del World Press Photo, che dal gennaio 2012 è più volte entrato illegalmente dal Libano e dalla Turchia. «In Siria è tutt’un’altra storia, rispetto anche a scenari solo in apparenza simili come quello libico. In Siria è un continuo nascondersi, dubitare della strada da prendere. Bisogna quasi assumere un atteggiamento militare e non lo si può fare a piede libero. Bisogna scegliere bene le persone che ti accompagnano e quelle che ti guidano». Dal canto suo, Cristiano Tinazzi, collaboratore freelance di diverse testate italiane, ha provato l’esperienza di lavorare in Siria sia in maniera illegale sia con accredito governativo. «Quando entri col permesso del regime non hai libertà di movimento. Partecipi a un tour organizzato. E se a Damasco si riesce a girare in discreta autonomia, fuori dalla capitale è molto pericoloso. In generale, la realtà è filtrata dalle linee guida governative ed è difficile comprender la complessità di quel che avviene sul terreno. Anche quando si entra senza accredito – prosegue Tinazzi – si è spesso costretti a limitare i movimenti, perché i ribelli stessi hanno interesse a non farti andare in alcuni luoghi o non farti parlare con alcune persone… ma non sono così organizzati come il regime». Alberto Stabile di La Repubblica, basato a Beirut e con una lunghissima esperienza da inviato e corrispondente in Medio Oriente, si è recato col permesso governativo a Damasco e nei suoi dintorni, a Dar‘a e a Homs: «In Siria è possibile lavorare in modo serio. Dipende dall’atteggiamento che un giornalista ha nei confronti di quel che vede e segue, di quel che ascolta. Quello siriano non è il primo caso in cui il giornalista è embedded e con uno spazio limitato di manovra. Successo già durante le due guerre del Golfo, quando la stampa estera fu costretta a seguire gli eventi in Iraq attraverso la lente mediatica americana. In principio, un buon giornalista – prosegue Stabile – è tale anche se si trova in una situazione di spazio limitato. Spesso non si può ascoltare l’altra versione, ma nulla impedisce di usare il proprio spirito critico in maniera onesta. L’importante è che il lettore sia al corrente della condizione in cui si trova il cronista».

Propaganda del regime e dei ribelli, sullo stesso piano? Tinazzi non è d’accordo con chi afferma che nella confusione mediatica relativa alla Siria “tutto è vero e tutto è falso”. «Ciò vorrebbe dire che tutti hanno ragione e tutti hanno torto. E chi manipola l’informazione vuole proprio questo, creare maggior confusione ed equiparare la propaganda del regime alle altre notizie». Zanconato, che prima di lavorare Beirut è stato corrispondente Ansa da Teheran, ricorda che «all’inizio della rivolta (dalla primavera del 2011, ndr) si capiva facilmente che quel che il regime siriano diceva era mera propaganda. Ormai, entrambe le parti usano la propaganda…è una guerra, e come in tutte le guerre si usano i media come propaganda. Quelle che usiamo noi non sono altro che fonti di guerra». Anche Alessio Romenzi non dà più molto credito alle fonti del fronte anti-regime. «Gli attivisti siriani non sono dei professionisti dell’informazione e stando all’interno della Siria mi sono reso conto di come spesso le notizie date dagli attivisti siano gonfiate rispetto a quel che avviene sul terreno. Ad Aleppo, ad esempio, ci venne raccontato che in un’esplosione erano morte trentacinque persone. Quando siamo andati sul posto abbiamo scoperto che le vittime erano tre. Mi sono capitati moltissimi episodi del genere». Sulla questione della credibilità delle fonti anti-regime, Tinazzi la pensa in modo diverso: «Per quanto mi riguarda, le fonti a cui mi sono affidato sono sempre state attendibili. Non si può paragonare lo scenario libico, dove l’insurrezione è stata anche accompagnata dal lavoro di spin doctors occidentali, a quello siriano dove l’informazione della rivolta non è organizzata. Spesso le fonti esagerano ma è a causa di un passaparola che non è necessariamente frutto di una strategia studiata a tavolino da chissà quale mente superiore. Gli attivisti siriani non sono professionisti dell’informazione, mentre dall’altra parte c’è una macchina di propaganda ben avviata». Tinazzi ricorda inoltre che «gli attivisti locali non sono abituati a ricoprire il ruolo di reporter, tantomeno in scenari di guerra e violenza, ed è normale che compiano errori di valutazione nel riferire le notizie. A volte – aggiunge Tinazzi – tendono a gonfiare un evento perché credono che sia l’unico modo di attirare l’attenzione di media stranieri in generale poco interessati a ciò che avviene in Siria».

Dall’interno si vede meglio? «Anche entrando in Siria non è detto che si abbia un quadro preciso della situazione», afferma Romenzi che è stato nelle regioni di Homs, Aleppo, Damasco e Idlib. « Risulta difficile sapere con certezza quel che avviene a pochi passi da te. Anche perché il passaparola tra le fonti non funziona e il reporter deve vedere con i propri occhi quel che è accaduto». Ciò basta? «No, non basta», risponde il fotografo freelance. «Perché nessuno può rivelarti con certezza le circostanze di un evento. Mi è capitato di fotografare “vittime del regime”, ma chi lo dice che non erano stati uccisi dai ribelli?». Ma allora dov’è la differenza tra il rischiare la vita entrando in Siria e il seguire gli eventi da una scrivania a mille chilometri di distanza? «In tutte le guerre non si può parlare di tutto – risponde Tinazzi – ma si parla solo di quel che avviene attorno a noi. Quando mi reco in un terreno di conflitto non penso mai di raccontare tutta la verità, ma di cercare di raccontare i fatti di cui sono testimone». Eppure, in una situazione a volte confusa come quella siriana, come si fa a capire, ad esempio, chi è l’autore di una strage? «Il caso del massacro dell’università di Aleppo (nel gennaio 2013,ndr) è esemplare», replica Tinazzi riferendosi alle accuse reciproche che il regime e gli attivisti si sono scambiati circa la paternità dell’uccisione di decine di persone nel bombardamento della residenza universitaria nella metropoli del nord. «Per quanto mi riguarda, ho incrociato i dati e le testimonianze di diverse fonti, ho visionato diversi video dell’accaduto, ho studiato a fondo la posizione geografica dell’obiettivo colpito e delle posizioni dei due schieramenti e sono arrivato alla conclusione che solo il regime avrebbe potuto colpire il campus in quel modo».

Forse è meglio tacere? Di fronte a tanta incertezza, è forse meglio smettere di raccontare, dall’interno o a distanza, gli eventi siriani? «In certi momenti ho pensato che tacere fosse meglio», risponde Zanconato. «Ma tacere non è possibile. In attesa di entrare col visto governativo, rimango all’esterno, sommerso da una pioggia di comunicati, di post su Facebook, di informazioni su Twitter… ho spesso la sensazione – continua il corrispondente Ansa – di lavorare sul nulla. E vedo che anche le agenzie internazionali, come la Reuters e France Presse, sono in estrema difficoltà e danno risalto a notizie che non sono verificate e verificabili». Per Stabile, «no, non si deve smettere di scrivere». Ma «bisogna essere il più possibile onesti nei confronti del lettore, citando le fonti e le versioni differenti. Certo – conclude – questo non ci mette al riparo da possibili manipolazioni. Ma è un rischio che va affrontato, perché vale sempre la pena dare le notizie con la dovuta chiarezza riguardo agli inganni mediatici».

Questo articolo è il secondo di una serie sulle fonti siriane curata da Lorenzo Trombetta. Il primo è stato dedicato a Siria e giornalismo: la guerra delle fonti