Schierate e sconfitte, le tv egiziane polarizzano il Paese

23/07/2013
aljazeera

Un’euforia ipernazionalista sta attraversando la maggioranza dei mezzi di comunicazione egiziani. Dopo la deposizione, il 3 luglio, del presidente islamista Mohammed Mursi, i liberali e gli esponenti di sinistra – tra i quali si mascherano sostenitori del vecchio regime – usano gli schermi televisivi per lodare il gesto con cui i militari hanno fatto uscire di scena il successore, democraticamente eletto, di Hosni Mubarak.

Sembrano lontani i tempi in cui la storica opposizione al vecchio regime ha lottato per costringere i militari a ritirarsi dalla politica. Eppure sono passati solo 12 mesi, un anno in cui gli egiziani hanno mostrato di non accontentarsi di una democrazia esclusivamente elettorale, sempre più simile a una dittatura della maggioranza.

Mentre gli elicotteri dei militari continuano a lanciare bandiere tricolori su quanti festeggiano a piazza Tahrir, la retorica nazionalista invade per primi i canali televisivi privati che demonizzano gli avversari politici islamisti – presentati quasi sempre come nemici – e poi la televisione di stato.

Basta guardare Al-Qaira al-Youm, dove Amr Adib elogia l’intervento militare, descrivendolo come un gesto d’amore delle forze armate nei confronti del popolo egiziano e mandando letteralmente all’inferno la guida suprema della Fratellanza Musulmana.

Gli esempi si moltiplicano se si osserva la programmazione di canali come Ontv, Cbc e Al-Qaira wa al-Nas, emittenti che già lo scorso dicembre erano state prese di mira da sit-in di salafiti guidati dal predicatore Hazem Salah Abu Ismail.

Tutto ciò mostra che la maggioranza dei media egiziani si è già schierata. Tra i due campi – islamisti e non islamisti – hanno preferito sostenere il secondo.

La partigianeria dei media egiziani non è una novità. Era presente ai tempi del vecchio faraone Hosni Mubarak ed è stata una costante della transizione prima e del periodo islamista poi. Per dodici mesi, l’emittente dei Fratelli Musulmani – Misr 25le televisioni salafite dei loro cugini più conservatori – tra cui Al-Nas e Al-Rahma – e i canali in arabo del network di Al-Jazeera – in primis Al-Jazeera Mubashir e Al-Jazeera Mubashir Misr – hanno cercato di mettere a tacere il dissenso, incitando spesso alla violenza contro i membri dell’opposizione civile sempre più spesso descritti come kafirun, miscredenti.

Il tutto mentre la presidenza Mursi chiamava a giudizio quanti osavano criticare o prendere in giro il primo raìs del post-Mubarak. Il caso del comico Bassem Youssef è stato quello più eclatante. Nei primi 200 giorni di Mursi al potere, le cause per insulto sollevate dalla presidenza contro i giornalisti hanno superato in fretta quelle avanzate dal vecchio faraone durante tutto il suo regno.

In assenza di un quadro legale e professionale chiaro e coerente, in grado di tutelare i soggetti mediatici, difendere la libertà di espressione e rispettare l’etica professionale, i media egiziani hanno esacerbato, più che smussato, la sempre più crescente polarizzazione che si è respirata tanto nelle strade quanto nei palazzi del potere.

Basta osservare i toni sempre più provocatori dei social network, Twitter in primis, per notare come è cresciuta la polarizzazione del discorso mediatico, soprattutto in concomitanza con il referendum popolare che ha approvato la costituzione, scritta esclusivamente dagli islamisti.

Il picco è stato registrato in occasione della manifestazione contro Mursi del 30 giugno, alla quale è seguito l’intervento militare del 3 luglio. In questa occasione, la faziosità mediatica egiziana è salita alle stelle.

Nel tentativo di ristabilire l’ordine, l’esercito non ha esitato a colpire i canali islamisti che avrebbero potuto incitare la folla a manifestare contro la deposizione di Mursi. Quattordici emittenti televisive sono state oscurate ed è stato annunciato l’arresto di Abu Ismail, accusato – a ragione – di aver incitato alla violenza. Le immagini più evidenti di questa censura sono state quelle trasmesse in diretta dal Al-Jazeera quando le forze di sicurezza hanno fatto irruzione nella sua sede per arrestare il personale.

Tra i primi a criticare questo atteggiamento dei militari è Bassem Youssef che descrive la retorica dei media egiziani come “fascista” spiegando che “una vittoria è stata trasformata in una campagna razzista e in una schadenfreude.” Insomma, c’è chi gioisce della sfortuna altrui senza pensare alle conseguenze che tale copertura ha su una società alla disperata ricerca di unità nazionale. Mentre i portali in lingua araba di Al-Jazeera continuano a trasmettere in diretta le immagini di Rabaa el-Adawyia, la piazza cairota dove si concentra il sit-in della resistenza islamista, sui media privati di queste scene non vi è traccia.

Le prime conseguenze di questo atteggiamento fazioso da parte dei media hanno già travalicato i confini nazionali, facendosi sentire innanzitutto nei dintorni di Gaza e Ramallah, ossia in quei Territori Palestinesi dove l’attivismo di Mursi era stato un tratto originale della dirigenza islamista – rivelatosi addirittura risolutivo in occasione dell’ultima offensiva israeliana del novembre scorso.

Descrivendo i legami tra il deposto presidente egiziano e il movimento di resistenza palestinese Hamas – si pensa che dietro l’evasione dal carcere di Mursi nel febbraio 2011 si nascondano uomini arrivati da Gaza – alcuni commentatori in onda su Al-Kahira wa al-Nas, Cbc e Tahrir hanno diffuso una serie di false notizie che hanno istigato un certo odio nei confronti dei palestinesi.

A denunciarlo sono l’Arabic Network for Human Rights Information, il centro per l’assistenza legale delle donne egiziane e l’Isham Mubarak law center che chiedono alle autorità egiziane di tracciare una linea riconoscibile tra la libertà di espressione e la retorica incendiaria che sta portando a discorsi xenofobi.

Di fronte a una simile polarizzazione i media, incapaci di svolgere il loro ruolo in modo professionale, ne escono quindi sconfitti, in quanto incapaci di svolgere il loro ruolo in modo professionale. Durante il discorso con il quale il capo delle Forze Armate, Abdel Fatah al-Sisi, ha deposto Mursi è stata annunciata la creazione di un codice etico che regoli i media. Nei fatti però, le nuove istituzioni ad interim stanno inviando messaggi del tutto negativi. Tanto il presidente Adli Monsour che il premier Hazem Beblawi annunciano sforzi per arrivare a un’unità nazionale, ma chiudono le porte in faccia a emittenti, come Al-Jazeera, che vogliono coprire le loro conferenze stampa.

Sembra quindi urgente uno sforzo per sostenere gli standard di un giornalismo meno partigiano. A trainarlo potrebbe essere il sindacato dei giornalisti, dove è sempre più evidente la contrapposizione tra paradigmi conservatori e liberali che influiscono poi sull’intero apparato informativo. Prima di aspettare che la nuova classe dirigente imponga un suo modello, i giornalisti dovrebbero essere i primi a sfruttare questa ulteriore fase di transizione per dare ai media il ruolo che spetta loro in un contesto democratico, cercando di servire da collante a un paese che loro stessi hanno fatto cadere nel vortice della polarizzazione.