La guerra al terrore nell’informazione mainstream egiziana

06/05/2015
egypt timep

Intorno alle 19 del 29 gennaio 2015 i social media hanno riportato la notizia di un attacco terroristico contro tre città del nord del Sinai – Rafah, al-Arish e Sheick Zuweud. Le tante domande sull’avvenimento – obiettivi, numero di feriti e di morti – rimasero inizialmente irrisolte, senza risposte ufficiali per circa quattro ore.

In un primo momento erano tutti d’accordo nell’affermare che l’obiettivo dei terroristi fossero le strutture delle forze armate. Il numero delle vittime tuttavia continuava a cambiare oscillando tra le 29 e le 45. Nelle ore successive, per l’esattezza alle 23, il portavoce ufficiale dell’esercito ha rilasciato una breve dichiarazione circa gli attacchi. Venivano attribuiti a “elementi terroristi”, descrivendoli come “una risposta alle riuscite operazioni militari contro il terrorismo”. Nessun commento venne fatto sul numero dei morti e dei feriti o su quali fossero gli specifici target militari.

Su twitter, l’account ora sospeso di Wilayat Sinai – la “Provincia del Sinai” dello stato islamico – dette i primi reali dettagli sugli attacchi assumendone la rivendicazione, indicando quali strutture militari fossero target e pubblicando delle immagini.

Come conseguenza della mancanza di informazioni e della poca credibilità del governo centinaia di utenti di Twitter, tra i quali affiliati dell’IS, hanno utilizzato l’account di Wilayat Sinai come unica fonte diretta di notizie, ripubblicando i suoi messaggi centinaia di volte e diffondendoli ad ampio raggio. Nel contempo alcuni giornali pubblicavano semplicemente le dichiarazioni ufficiali del governo, mentre altri ignoravano del tutto gli attacchi. Di nessuna utilità anche le dichiarazioni della polizia di Stato.

I media alternativi consentono a chi li utilizza di diventare reporter, ciò rese impossibile il controllo dell’informazione del governo su uno specifico avvenimento. Di conseguenza, i social media, intenzionalmente o meno, rivelarono le inesattezze delle dichiarazioni ufficiali del governo o in molti casi le coperture di notizie dei media di Stato.

In seguito alla ribellione del 30 giugno 2013 contro l’ex Presidente Mohammad Morsi e la Fratellanza Musulmana, che portò alla conquista militare del governo e all’arresto di Morsi nel mese di luglio, la violenza si riversò sulle postazioni militari e di polizia e sui luoghi di culto. In breve l’allora Ministro della Difesa, Abdel Fattah al-Sisi, chiese agli egiziani di autorizzarlo a combattere il terrorismo.

Molti social media – quelli che esplicitamente si erano schierati con il governo – accusarono la Fratellanza di aver gestito gli attacchi, prima che gli occhi di tutti fossero rivolti al Sinai, il 19 agosto 2013. Poi 25 ufficiali delle forze armate furono uccisi nel nord del Sinai nel corso di una imboscata, azione nota come il secondo massacro di Rafah. In seguito al massacro, le dichiarazioni ufficiali sostenevano che le forze armate avevano portato a termine con successo l’operazione di rappresaglia “I covi dei terroristi” mentre i giornali governativi pubblicarono resoconti analoghi, confermando che il Sinai sarebbe stato liberato dai terroristi in pochi giorni. Altre dichiarazioni simili seguirono, rese da ex ufficiali dell’esercito, sollevando la questione di una probabile intromissione governativa nella stampa.

I media continuarono a essere reticenti sul Sinai, specialmente dopo che le forze militari arrestarono il giornalista egiziano Ahmed Abu Dera’a, poi consegnato ad un tribunale militare. La sentenza recita: “(Abu Dera’a) ha riportato di proposito notizie false sulle forze armate e sulle loro operazioni nel nord del Sinai, sui canali satellitari televisivi e sulla stampa egiziana, dove lavora come corrispondente. (Il giornalista) ha pubblicato resoconti contraddittori sui fatti della campagna militare di sicurezza relativa ai covi criminali”. Dunque Dera’a fu arrestato semplicemente perché aveva pubblicato resoconti sulle operazioni militari non in linea con la politica governativa e ciò conferma il timore che l’obiettivo dello Stato sia quello di limitare il ruolo della stampa.

Nel gennaio 2015, il Presidente Sisi, nel corso di una dichiarazione sui recenti attacchi terroristici a Rafah e al-Arish, ha dichiarato: “In un incontro coi giornalisti, ho detto che ai media è fatto divieto di diramare notizie militari in tempo di guerra”.

Nel novembre 2014 il governo ha tentato di legalizzare il blackout dell’informazione annunciando un disegno di legge che proibisce la pubblicazione di notizie inerenti operazioni militari. Il nuovo disegno di legge, in verità, è un mero aggiornamento di una legge del 1956, il cui primo articolo vieta la diffusione delle notizie riguardanti le forze armate.

Ad ogni modo tutto ciò non potrà impedire la diffusione di informazioni da parte dei social media, forti concorrenti dei media convenzionali. I governi hanno bisogno del pieno sostegno dell’opinione pubblica e ciò è impossibile se si imbavaglia la stampa, se si opprime l’opposizione, se si persevera con una politica di blackout mediatico.

Articolo precedentemente pubblicato su The Tahrir Institute for Middle East Policy.

Traduzione e adattamento di Odetta Pizzingrilli.