I Saud vs Al-Jazeera

18/03/2014
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Prima il ritiro dell’ambasciatore da Doha, poi l’annuncio della chiusura degli uffici di Al- Jazeera a Riyad. Affiancati dagli Emirati Arabi Uniti (Eau) e dal Bahrein, i Saud vanno alla resa dei conti con il più irrequieto e ambizioso attore geopolitico del Golfo. E stando a fonti sentite dall’Afp, l’ultimatum consegnato al Qatar lo scorso 5 marzo durante una riunione del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Ccg) sarebbe ancora più pesante: staccate la spina una volta per tutte alla vostra sediziosa tivvù.

Al centro del contenzioso, la protezione che il Qatar concede ai Fratelli Musulmani e la libertà accordata alla sua voce più influente – il tele-predicatore Yusuf al–Qaradawi – di fustigare i governanti della regione. L’ultimo episodio risale a poche settimane fa, quando dal pulpito di al-Shari’a wa aI-Hayat (Shari’a e vita) l’imam se l’è presa con gli Eau, accusati – per via dell’arresto di dozzine di affiliati agli Ikhwan (Fratelli musulmani) – di “opporsi a tutto ciò che è islamico”.

Il Qatar avrebbe così disatteso l’accordo con il quale lo scorso 23 novembre si era impegnato a rispettare il principio di non-ingerenza tra stati fratelli, ponendo fine al sostegno (diplomatico, mediatico o militare che sia) dato a chiunque – in primis i Fratelli – possa rappresentare una minaccia per la sicurezza e la stabilità del Ccg. 

La manovra diplomatica orchestrata dall’Arabia Saudita rientra in un più generale giro di vite nei confronti di islamisti e jihadisti, locali e di esportazione – culminato nell’iscrizione dei Fratelli nella lista nera dei terroristi. Dopo aver a lungo esportato insorgenti all’estero e avere visto i mujahidin tornare a casa addestrati e incattiviti, ora Riyad si premunisce, nel timore che anche i combattenti impegnati sui campi di battaglia siriani rientrino in patria con le peggiori intenzioni. Ma lo scontro con il Qatar ha anche, e soprattutto, una ragion d’essere geopolitica. Ed esprime il mutato rapporto di forza nello spazio politico arabo.

“Trecento persone e una televisione, non fanno uno stato”, così, stando al Wall Street Journal, il principe Bandar bin Sultan – per 20 anni ambasciatore a Washington, ora a capo dell’intelligence saudita – avrebbe liquidato il peso politico del piccolo, ma iperattivo emirato.

All’interno delle rigide gerarchie del Golfo, il Qatar si è ritagliato la parte del battitore libero sin dall’avvento al potere di Hamad Bin Khalifa a metà degli anni ’90, ben prima che le rivoluzionarie “padelle” satellitari cambiassero il paesaggio (anche politico) delle società arabe. Così, pur ospitando la più grande base militare statunitense del Medio Oriente, Doha negli anni si è smarcata dalla strategia di “containment” sponsorizzata da Washington nel Golfo nel tentativo di arginare il “crescente sciita”, optando per il dialogo con l’Iran (con il quale condivide il più grande giacimento di gas al mondo), la Siria, e i loro clienti Hamas ed Hezbollah. Doha ha fatto da sponda quando conveniva “all’asse della resistenza” (senza però rinunciare a prove tecniche di dialogo con “l’entità sionista”) generando così la diffidenza dell’Arabia Saudita, leader “dell’asse della moderazione” e garante dello status quo. Con la nascita di Al-Jazeera il rapporto si inasprisce e già nel 2002 Riyad richiama l’ambasciatore per protestare contro lo spazio concesso dall’emittente a dissidenti sauditi.

L’avvento della Primavera araba coglie qatarensi e sauditi in una fase di riconciliazione. Doha però decide di cavalcare le rivolte – tanto con l’hard quanto con il soft power – grazie alle quali spera di vedersi finalmente riconoscere lo status di potenza regionale. Anche a costo di mettere in discussione il patto sociale su cui si reggono le petromonarchie del Golfo, e scardinare in coppia con la Turchia del fratello Erdogan l’egemonia dell’Arabia Saudita.

Sia chiaro, la famiglia Al-Thani non ha nessuna velleità rivoluzionaria, ma ha lo strumento migliore per soffiare sulla rivolta ovunque si presenti, dalla Tunisia alla Libia fino all’Egitto e alla Siria, e ottenere così – a tempesta conclusa – una rete di governi fedeli in Nord Africa e Medio Oriente.

Il Qatar sul piatto ha gettato potenza militare (si pensi all’operazione libica, in partneship con la Nato) e ingentissimi investimenti finanziari (tre miliardi a sostegno dei ribelli siriani, quasi otto nel disastrato Egitto del deposto presidente Mohammed Mursi) schierando Al Jazeera in prima linea a promuovere la giusta causa, dai fronti libici e siriani alle piazze d’Egitto.

La Libia però è implosa. I Fratelli in Egitto hanno retto solo un anno prima di farsi rovesciare dall’esercito con la benedizione dei Saud, già alleati e sponsor dell’Ancien Régime mubarakiano. E con gli islamisti sono finiti nei guai anche 20 giornalisti di Al- Jazeera, sotto processo al Cairo con l’accusa di sostegno ai terroristi. In Siria, il sordo conflitto d’influenza tra qatarensi e sauditi che si svolto all’interno della galassia ribelle – con i primi decisi a sostenere politicamente i Fratelli e militarmente anche i qaedisti del fronte Al-Nusra – si è (si era?) risolto a metà 2013 con l’imposizione di un controllo saudita sui rifornimenti all’insorgenza. Il Qatar, insomma, ha dimostrato ottimi riflessi, ma scarsa lungimiranza strategica. E ha rischiato di dilapidare il capitale di credibilità di Al-Jazeera, proprio quando il suo strumento di soft power più potente sbarcava in America.

Sebbene la restaurazione in corso rafforzi il potere dei Saud, però, la sottomissione del Qatar è tutt’altro che un fatto compiuto. Doha non intende rinunciare all’indipendenza (e tanto meno ad Al-Jazeera). E con l’ennesima acrobazia diplomatica, il Qatar a febbraio ha riaperto i canali con l’Iran, cogliendo con un viaggio a Teheran del ministro degli esteri Khaled al-Attiyah l’opportunità che le può può offrire il “constructive engagement” di Rouhani. Il neo-Emiro Tamin bin Hamad potrebbe così guadagnare nuovo spazio di manovra tra le due grandi potenze in conflitto, nel momento in cui Arabia Saudita va alla prova di forza per imporre la propria egemonia sul Ccg, col rischio, però, di spaccarlo una volta per tutte.