Guerra fredda satellitare nel Golfo: Al-Arabiya vs Al-Jazeera

19/08/2013
AlJazeera_AlArabiya

Dieci anni fa il lancio dell’emittente saudita Al-Arabiya segnava una tappa cruciale nella storia dei media arabi, polarizzando l’attenzione di analisti e politologi non solo sul nuovo scenario concorrenziale del mercato delle news in lingua araba, ma anche sulla disputa tra Qatar e Arabia Saudita per la leadership regionale.

Sin dal suo avvento Al-Arabiya dichiara aperta battaglia alla più accreditata rivale, sostenendo di volersi distinguere dal modello di Al-Jazeera incline ad un giornalismo sensazionalistico. L’emittente saudita aspira a puntare sulla sobrietà e sulla neutralità nel trattamento delle news, seppur imitando i format della rivale e sforzandosi di eguagliarne gli standard professionali e le capacità di copertura degli eventi. Dietro a scelte editoriali e strategie di mercato si nascondono però delle volontà politiche che indirizzano inevitabilmente gli obiettivi dei network e ne precisano l’identità. L’equazione appare subito chiara: se, per l’opinione pubblica araba e per ammissione dei suoi stessi giornalisti, Al-Jazeera rappresenta il Qatar, Al-Arabiya è un dispositivo al servizio degli obiettivi dell’Arabia Saudita.

Basata nella Media City di Dubai, negli Emirati Arabi, Al-Arabiya viene fondata grazie allo sforzo congiunto di investitori sauditi, giordani, libanesi, bahreniti e kuwaitiani in seno alla compagnia Middle East Broadcasting Center (Mbc), presieduta da Shaykh Walid al-Ibrahim, vicino alla casa reale di Riyad. Saudita è anche il direttore Abd al-Rahman al-Rashid, di formazione britannica e con anni di esperienza come caporedattore di Al-Sharq al-Awsat, uno dei maggiori giornali sauditi.

Quell’operazione economica ha una precisa finalità politica, ovvero quella di sottrarre audience e prestigio ad Al-Jazeera, rilanciando l’immagine dell’Arabia Saudita presso l’opinione pubblica araba, più volte resa opaca da rappresentazioni ostili e sferzanti servizi giornalistici dell’emittente di Doha, così orientando una linea editoriale che rappresentasse gli interessi della casa regnante.

È un’operazione tesa a restituire ai sauditi influenza nella regione. Di fatti, prima dell’ascesa di Al-Jazeera, erano Arabia Saudita ed Egitto a contendersi il monopolio del giornalismo televisivo arabo transnazionale. L’affermazione del Qatar sulla scena regionale ed internazionale attraverso la creazione dell’emittente va a riconfigurare anche l’assetto geo-politico e dei rapporti diplomatici tra i paesi del Golfo. Le autorità di Riyad provano a contrastare il nuovo potere mediatico del Qatar attraverso due strategie: incidendo sui processi di funzionamento dell’emittente qatarense attraverso il boicottaggio pubblicitario e investendo nella creazione di un’emittente satellitare antagonista.

 Il modello rivoluzionario di Al-Jazeera

Sono diversi i tratti innovativi del modello Al-Jazeera che hanno rivoluzionato il paesaggio dei media arabi in stile e contenuto. Innanzitutto è un modello che mette in crisi l’idea dominante nella cultura mediatica araba che, per godere di una certa libertà, le emittenti arabe potevano trasmettere solo dall’estero (si pensi Mbc con sede a Londra o Orbit con sede in Italia). Inoltre dimostra, con la diversificazione dei suoi giornalisti – rappresentativi di ogni ‘bandiera’ del mondo arabo – e la varietà dei suoi servizi, che è possibile realizzare del giornalismo credibile e di alta qualità attraverso un progetto pluralista, pur conservando una forte impronta panarabica e per certi versi panislamica.

In precedenza, la Mbc, il maggiore network satellitare controllato dai sauditi, aveva basato il suo progetto editoriale su una solida alleanza saudita-libanese collaudata sin dai tempi del lancio del giornale Al-Hayat. Impiegando i numerosi giornalisti libanesi emigrati in Europa in fuga dalla guerra civile e lì formatisi, si era garantita oltre ad alti standard professionali la tutela dell’immagine della famiglia reale saudita agli occhi dell’opinione pubblica araba e la legittimazione della sua politica estera, grazie ad una lettura degli eventi regionali fedele agli interessi e alle strategie americane nel Golfo e più in generale in Medio Oriente.

Era inoltre un tipo di giornalismo che pur distante dalle blande cronache di propaganda imposte nelle televisioni di Stato, non interferiva nelle vicende interne dei singoli regimi arabi.

Al contrario, la forza attrattiva di Al-Jazeera risiede sin dai suoi esordi nella capacità di ‘mobilitare’ l’audience araba, abituata ad essere destinataria passiva di un’informazione veicolata e controllata dagli apparati di regime, e di accrescerne il senso di consapevolezza politica. È stata più di una volta accusata di aver istigato manifestazioni di protesta civile ed infiammato le piazze, al punto da condizionare le scelte politiche di alcuni governi costretti ad esaudire le richieste del popolo. E ciò, grazie alla sua netta apertura alle opposizioni, alla sua politica editoriale fortemente imperniata sui principi della dialettica, del confronto alla pari, dando voce all’‘opinione contraria’ e quindi al dissenso interno ai regimi arabi. Ad acuire la crisi diplomatica con l’Arabia Saudita, non solo i vari reportage critici nei confronti della casa reale, ma soprattutto lo spazio concesso sugli schermi di Al-Jazeera ad alcuni esponenti dell’opposizione saudita quali Sa’ad al-Faqih, leader del Movimento per le riforme islamiche in Arabia, Mira, e Muhammad al-Massari, a capo del Comitato per la difesa dei diritti legittimi, Cdlr, entrambi esuli a Londra. Non minor peso ha avuto, in seguito agli eventi dell’11 settembre, la diffusione dei messaggi video di Osama Bin Laden che incitava al jihad non solo contro il ‘nemico esterno’, gli Stati Uniti e i suoi alleati occidentali, ma anche contro il ‘nemico interno’, ossia quei regimi arabi che hanno stretto alleanze e fanno affari con il nemico esterno, in primis la famiglia reale saudita.  

Tutti questi fattori ed episodi convergono in una più ampia strategia politica votata ad arginare l’egemonia saudita in seno al Consiglio di Cooperazione del Golfo, aspirando a ridimensionare la sua influenza regionale. La risposta dell’Arabia Saudita a quegli attacchi non si è fatta attendere: interdizione dei corrispondenti di Al-Jazeera nel regno e, nel 2002, ritiro dell’ambasciatore saudita dal Qatar.

Gli schermi televisivi diventano arena di vecchie dispute

Già in passato si erano registrate frizioni tra i due paesi legate ad antiche dispute territoriali che risalgono al tempo del dominio coloniale britannico. Non sono mancati incidenti diplomatici che si sono tradotti in scontri armati, come quello presso il confine di al-Khafus nel 1992, denunciato anche da Iran e Iraq come un atto di aggressione dell’Arabia Saudita, che spinse il principe del Qatar Hamad bin Khalifa al-Thani a sospendere il precedente accordo frontaliero con i sauditi risalente al 1965.

Con l’avvento al potere nel 1995 di Hamad bin Khalifa al-Thani grazie ad un golpe bianco ai danni del padre si apre una nuova pagina per il Qatar. Il giovane emiro, formatosi in Gran Bretagna e affascinato dai modelli politici occidentali, avvia un graduale processo di democratizzazione del paese, il quale viene dotato di istituzioni elette dai cittadini. Al-Thani realizza riforme cruciali, tra cui la concessione del diritto di voto alle donne nel 1998 e l’abolizione del ministero dell’Informazione, organismo di censura di tutti i media. Qualche anno più tardi viene promulgata la prima costituzione. È nel solco di questa spinta riformista e ‘modernista’ che va inquadrata la creazione di Al-Jazeera come televisione satellitare ‘indipendente’ – seppur finanziata dall’emiro in persona – con una funzione decisiva per il Qatar nella regione.

Anche in politica estera il Qatar si afferma come nuovo attore nella regione, in cerca di dialogo con le potenze mondiali per guadagnare maggiore appeal internazionale. Apre ad esempio agli Stati Uniti stipulando accordi economici e militari. Proprio dalla base di Doha agiscono le truppe anglo-americane in precedenza di stanza in Arabia Saudita durante la terza guerra del Golfo.

Tra offerta giornalistica e politica estera

La crescita di prestigio internazionale del network, la capacità di spodestare nel giro di pochi anni l’autorità dei maggiori canali all-news europei ed americani sui caldi teatri di guerra del Medio Oriente, la capacità di conquistare consensi a colpi di esclusive e accesi talk-show, di esercitare influenza su segmenti dell’audience arabofona aldilà dei confini mediorientali ridimensionano sempre di più il prestigio mediatico dei sauditi.

È sull’offerta giornalistica, sui contenuti e sull’orientamento politico che si disputa la nuova partita. Al-Arabiya è una risposta che ricalca il modello della Mbc, avvalendosi di navigati professionisti libanesi e giornalisti sauditi allineati al potere, ma imita i format della rivale, persegue i suoi alti standard di produzione e persino assume personale esperto fuoriuscito dall’emittente qatarense, come il primo caporedattore Salah Nagm. Nello stesso tempo si mostra più diplomatica nei rapporti interazionali e legittimista della politica statunitense. È sugli schermi di Al-Arabiya che il l’ex presidente George W. Bush affida il suo messaggio ai popoli arabi in occasione dello scandalo delle torture perpetrare dai soldati americani ai prigionieri iracheni nel carcere di Abu Ghraib. E sempre ad Al-Arabiya affida il suo appello al dialogo con il mondo arabo-islamico il presidente Barack Obama nel 2009.

Due grandi sfide: l’Islam politico e i rapporti con l’Occidente

L’altro motivo di distinzione cruciale, sempre più al centro del dibattito pubblico, è lo spazio concesso da Al-Jazeera agli esponenti dell’Islam politico. Sin dagli esordi Al-Jazeera si è guadagnata il consenso di una vasta audience islamica, dando spazio ai movimenti religiosi esclusi dalla scena politica araba e repressi dai vari regimi. Yusuf al-Qaradawi, ideologo di spicco della Fratellanza Musulmana nonché membro del consiglio di amministrazione dell’emittente, è una presenza immancabile sugli schermi dell’emittente. Uno dei programmi di maggior successo è Al-shari‘a wa’l hayat, La shari‘a e la vita, in cui predicatori legati perlopiù alla Fratellanza Musulmana dispensano al pubblico dei fedeli consigli di buona condotta, ma anche fatwa – sentenze religiose – ed interpretazioni del Corano utili per la vita di ogni giorno. Il confine tra educazione religiosa e indottrinamento/strumentalizzazione di massa attraverso la propaganda islamica è senza dubbio labile. L’orientamento di apertura alle istanze islamiste del canale avviato con l’avvento del nuovo direttore generale Waddah Khanfar nel 2006 è stato bersaglio dei media occidentali, ma anche della rivale Al-Arabiya. Quest’ultima ha provato a guadagnarsi la fama di emittente obiettiva nel trattamento giornalistico degli avvenimenti, in particolare in relazione al fondamentalismo islamico e ai dossier legati ai conflitti o alle questioni religiose, ovvero Iran, Iraq, Hizbollah e Hamas. Attraverso diverse inchieste sui movimenti jihadisti e sulle reti terroristiche legate ad Al-Qaeda ha realizzato degli scoop importanti. Nel 2009 Rima Saliha, la conduttrice libanese del programma di approfondimento Sina’at al-mawt, L’industria della morte, ha subito minacce di morte da parte di gruppi fondamentalisti, diffuse attraverso il sito di Al-Arabiya.

Per il suo orientamento moderato e la sua identità ibrida, per la sua apertura verso gli Stati Uniti e Israele Al-Arabiya si è attirata le ire e il biasimo di tanti detrattori che l’hanno accusata di sostenere istanze filo-americane o peggio filo-sioniste, definendola al-‘Ibriyya (L’ebrea).

Le rivoluzioni arabe

Malgrado il più recente disgelo tra i due paesi accompagnato da un accordo definitivo sul tracciato del confine nel luglio del 2008, le due emittenti hanno continuato a contrapporsi e a contendersi il mercato arabo delle news con le loro divergenti linee editoriali. Le rivoluzioni del 2011 hanno riacceso il confronto. Al-Jazeera è salita alla ribalta per il suo giornalismo engagé affermandosi agli occhi dell’opinione pubblica mondiale come un protagonista attivo nei processi democratici della regione. Ha infiammato le piazze arabe, dato aperto sostegno ai dissidenti e agli esponenti islamici all’opposizione, ha mobilitato tutti i suoi canali, in modo particolare i new media al servizio del racconto rivoluzionario. Tempestiva e presente su ogni arena, ha coperto le rivoluzioni con collegamenti 24 ore al giorno e dibattiti appassionati.

Ancora una volta Al-Arabiya non ha mostrato lo stesso ‘mordente’ e la stessa ‘forza attrattiva’ della rivale. Nei primi momenti non ha dato una copertura degli eventi altrettanto esaustiva, definendo il contagio rivoluzionario come azma, crisi, e non come thawra, rivoluzione. Entrambe le emittenti sono finite nell’occhio del ciclone per alcune coperture discutibili con conseguente chiusura degli uffici di corrispondenza. Sono state più di una volta accusate di uso manipolatorio delle fonti, di presentare ricostruzioni inverosimili, falsi scoop.

La copertura della guerra in Siria ha destato particolare clamore, con l’uso di materiali audiovisivi poco attendibili. Hanno evidenziato chiaramente la predilezione per le vicende di alcuni, mascherando o marginalizzando le vicende di altri (vedi Bahrein). In quell’arena mediatica sta avendo luogo da più di due anni una battaglia geopolitica che coinvolge il mondo intero, non solo Qatar e Arabia Saudita. Se il monitoraggio dei processi di transizione ha rivelato diverse crepe nel funzionamento giornalistico di entrambe le emittenti, non minor peso ha avuto il trattamento delle annose questioni palestinese ed irachena, che riflette inevitabilmente le posizioni di Arabia Saudita e Qatar a riguardo. Non c’è stata una copertura estensiva da parte di Al-Arabiya degli attacchi israeliani a Gaza nello scorso novembre rispetto ad Al-Jazeera, che non ha esitato a parlare di una seconda ‘piombo fuso’, dando risalto alle dichiarazioni di esponenti di Hamas.

Quest’ultimo elemento ci riporta all’attualità del dibattito mediatico dominato sempre più dalla cristallizzazione del ‘discorso islamista’ sugli schermi di Al-Jazeera, ormai scissa in una duplice identità. Da un lato il nuovo orientamento verso ovest alla conquista dell’America – dettato soprattutto da logiche di business e da appetiti di mercato. Ad Al-Jazeera Arabic e ad Al-Jazeera English si affiancherà a breve ‘l’esperimento’ Al-Jazeera America. Uno stesso marchio, dalla forte valenza identitaria e simbolica, per tre canali completamente diversi per palinsesto e target. Dall’altro è innegabile il peso esercitato dai Fratelli Musulmani sulla linea editoriale dell’emittente qatarense, come testimoniato inoltre da alcuni giornalisti dimissionari in seguito a pressioni subite.

La tendenza di Al-Jazeera a favorire le narrazioni dei gruppi islamici è apparsa con particolare evidenza durante queste ultime concitate settimane della “seconda rivoluzione” egiziana.

La reazione di gran parte della società civile egiziana nei confronti dell’emittente è stata veemente. Essa ha pagato con la chiusura degli uffici di Al-Jazeera Misr, Al-Jazeera Egitto, su pressione dei manifestanti del movimento Tamarrod indignati dalla rappresentazione unilaterale degli eventi del 30 giugno e post.

Sensibili differenze si sono riscontrate tra le due emittenti nel racconto delle vicende egiziane. Se Al-Arabiya si è limitata a presentare il burrascoso processo nelle sue diverse e complesse dinamiche, Al-Jazeera ha posto enfasi sull’ingiustizia subita dai Fratelli Musulmani denunciando apertamente l’illegittimità dell’operazione militare e dedicando lunghe riprese alla piazza del dissenso islamico, Rabaa al-Adawiya.

 

Data la complessità e la variabilità degli scenari in corso, non è facile giungere a conclusioni. Seppur la subordinazione delle linee editoriali all’agenda politico-diplomatica possa apparire non sempre così chiara ad un osservatore esterno, non v’è dubbio che questi due network vengano usati come autentici strumenti di politica estera. Se è vero che da un lato questa disputa mediatica e diplomatica riflette fratture e contrasti presenti nel Golfo, dall’altro i processi politici in corso inducono a delle riflessioni più oculate intorno a presunte verità acquisite su schieramenti e alleanze che spesso celano la loro natura ambigua e contraddittoria. L’esempio della Siria, paese che Qatar e Arabia Saudita vedono come estremo baluardo contro la minaccia dell’egemonia sciita (si legga russo-iraniana) nella regione – ne è una prova dolente.