Egitto: ancora sete di libertà di informazione

10/01/2013
sciopero media egiziani

Hossam El-Hamalawy non cambia idea. Lo scriveva ai tempi di Hosni Mubarak e continua ripeterlo ora. “In una dittatura, il giornalismo indipendente diventa automaticamente una forma di attivismo e la diffusione delle informazioni è essenzialmente un atto di agitazione”. Giornalista, freelance più per scelta del vecchio regime che per motivazioni personali, El-Hamalawy, alias @a3rabawy, è uno dei più costanti blogger egiziani che ha combinato la militanza di strada a quella virtuale.

A due anni dallo scoppio della rivoluzione che ha spodestato il vecchio dittatore, El-Hamalawy è tornato in strada per criticare il colpo di mano con il quale, a fine novembre, il presidente islamista Mohammed Mursi ha varato un decreto costituzionale attribuendosi poteri straordinari, accelerando l’approvazione della nuova Carta e fissando la data del referendum confermativo. A criticare questa mossa sono state decine di migliaia di manifestanti, tra i quali numerosi giornalisti preoccupati non solo per i recenti sviluppi, ma anche per la morsa sulla libertà di informazione esercitata dalla nuova leadership.

Chiedendo il rispetto dello stato di diritto e della divisione dei poteri, il 4 e il 5 dicembre dodici quotidiani e cinque canali televisivi hanno scioperato. “Leggete questo messaggio perché rifiutiamo le continue restrizioni alle libertà dei media, soprattutto dopo che centinaia di egiziani hanno speso la loro vita per la libertà” si leggeva sulla home page della rivista Egypt Independent. A interrompere la pubblicazione sono stati anche Al-Watan, Al-Tahrir, Al-Wafd, Al-Yaoum 7, Al-Dostour, Al-Shorouk, Al-Ahly, Al-Fagr e al-Usbua.

“I giornalisti non si arrenderanno. Siamo parte di un più grosso movimento che si oppone al testo costituzionale” spiega Gamal Fahmy, volto storico del sindacato dei giornalisti che ha da sempre combattuto contro la dittatura. Questa corporazione è stata infatti una delle più aspre e longeve contestatrici di quel vecchio regime e ha cercato di destabilizzarlo già nel 2005, durante la prima primavera cairota che ha gettato i semi della rivoluzione. “La Costituente ci ha concesso di inviare pareri all’Assemblea, ma si è poi avvalsa della facoltà di cestinare le nostre raccomandazioni. Che forma di democrazia è questa?” aggiunge Fahmy, spiegando perché il sindacato ha deciso di ritirare i suoi rappresentati dall’Assemblea.

Uno degli articoli più contestati è il 48 che afferma la libertà di espressione, ma la limita al rispetto dei principi dello stato e alla sua sicurezza pubblica e nazionale. Lo spirito delle limitazioni si estende all’articolo 49 che impone una chiara regolamentazione giuridica per la creazione di nuove stazioni radio-televisive e media digitali, richiedendo la notifica della creazione di nuove pubblicazioni. L’articolo 125 prevede che un Consiglio Nazionale dei Media preservi i principi sociali e i valori costruttivi che garantiscono la libertà mediatica. L’inafferrabilità di tutte questi richiami a valori spaventa non pochi i giornalisti che temono di dover rinunciare a una libertà di espressione che non è mai arrivata veramente.

Sin dal giorno dopo la caduta di Mubarak, redattori e cronisti hanno denunciato la morsa repressiva sui media. Durante la transizione è stato molto complicato criticare il Consiglio Supremo delle Forze Armate e anche quei giornali su posizioni più liberali che hanno per anni contribuito a indebolire l’immagine del vecchio faraone sono stati più cauti nei confronti dell’esercito.

I timori dei giornalisti sono aumentati soprattutto dopo l’elezione del presidente Mursi che ha immediatamente cambiato i vertici dei principali network informativi. A capo del Ministero dell’informazione il presidente ha messo uno dei suoi uomini, Salah Abdel Maqsoud. Cambiamenti strategici ci sono stati anche ai vertici del giornale Akhbar al-Youm, dell’agenzia di stampa Mena e dello storico quotidiano Al-Ahram, ora guidato da Abdel Naser Salama.

Nel mese di agosto si sono registrati almeno tre gravi attacchi alla libertà di stampa. Il quotidiano Al-Akhbar ha rinunciato agli editoriali di Ibrahim Abdel Meguid e Youssef el-Qaeed, voci critiche nei confronti degli islamisti. Al-Dustur è stato sorpreso da una irruzione delle forze dell’ordine che hanno confiscato le ultime pubblicazioni e la Magistratura ha avviato un’inchiesta per insulti al presidente. Il provvedimento più clamoroso è stato quello con il quale è stato chiuso il canale satellitare Al-Faraeen, seguitissimo soprattutto per le trasmissioni di Tawfik Okasha,un controverso giornalista, critico nei confronti della Fratellanza.

A ottobre si è parlato molto del ritorno di una giornalista velata nella televisione di stato. Era dagli anni Settanta che le donne con il capo coperto venivano sistematicamente escluse dalle apparizioni in video, eppure, a mezzogiorno di domenica 2 settembre, Fatima Nabil ha infranto questo tabù. Quanti temono gli effetti di un’eccessiva islamizzazione dei media hanno paura però di altre cose, soprattutto delle restrizioni imposte dai piani editoriali.

Il 3 dicembre, la giornalista Hala Fahmy ha deciso di criticare in diretta la deriva islamista del paese e nel corso della sua trasmissione in onda sulla televisione di stato ha mostrato un sudario, simbolo, nella tradizione locale, della presenza di una situazione rischiosa o dell’imminenza di un rito funebre. Dopo pochi minuti la puntata è stata oscurata.

“I vertici della mia compagnia mi hanno più volte chiesto di invitare in trasmissione esponenti della Fratellanza, ma ho rifiutato perché la mia trasmissione si occupa di questioni sociali più che politiche” ha detto Fahmy, temendo che dietro l’oscuramento della sua trasmissione si nascondano punizioni e intimidazioni. Riecheggiando quell’autocensura che ha caratterizzato il sistema informativo egiziano per molti decenni, Fahmy ha anche spiegato che all’interno del Ministero dell’Informazione c’è chi fa il possibile per compiacere Maqsoud, sforzandosi di mettere in luce le politiche degli islamisti.

Quello mediatico è un faccia a faccia che va ben oltre gli schermi televisivi. I simpatizzanti della Fratellanza Musulmana accusano i media privati di dare una falsa rappresentazione della realtà e in occasione dello sciopero del 4 e 5 dicembre il sito del movimento islamista ha pubblicato un comunicato nel quale presentava i giornali coinvolti come strutture vicine al vecchio regime. Al contempo però, Reporter senza Frontiere ha accusato alcuni sostenitori di Mursi di aver deliberatamente attacco i giornalisti che coprivano le manifestazioni contro il presidente.

“La rivoluzione non è mai passata nelle redazioni” continua a ripetere la maggior parte dei giornalisti egiziani che sperava in un cambiamento. “Per chiudere definitivamente con il passato” si legge su un tweet  “l’informazione egiziana deve rinunciare alla pluridecennale tradizione di mettersi al servizio del governante.”