Da alleati a terroristi: la guerra mediatica del Golfo ai Fratelli Musulmani

01/04/2015
ImmagineFM

Nel 2014 sia l’Arabia Saudita che gli Emirati Arabi Uniti hanno deciso di dichiarare i Fratelli Musulmani (al-Ikhwan al-Muslimun) un’organizzazione terroristica, a dispetto dell’alleanza storica tra il movimento di Hasan al-Banna e le monarchie del Golfo e della posizione del Qatar, che rimane tuttora il suo maggiore sponsor.

Tra i Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc) permangono infatti delle divergenze: oltre alla posizione antitetica del Qatar, il Kuwait presenta un’opinione pubblica divisa, consapevole degli stretti legami esistenti tra casa regnante e Fratelli Musulmani. In parallelo alla lenta riconciliazione con Doha e all’ascesa al trono di Salman Abdul-‘Aziz lo scorso gennaio, la stessa Arabia Saudita sembra essere leggermente più possibilista per quanto riguarda il dialogo con i Fratelli. Sul fronte dell’intransigenza si trovano invece gli Emirati, che a differenza degli altri regimi del Golfo, possono addurre come motivazione lo smascheramento di una presunta rete insurrezionalista collegata agli Ikhwan nel 2013.

Le diverse posizioni emergono dall’analisi della copertura mediatica dei Fratelli sulle emittenti del Golfo: la stessa retorica utilizzata nell’attaccarli è sintomo di problemi ben più profondi legati alle contingenze regionali e all’esigenza delle monarchie di salvaguardare la propria stabilità. È solo attraverso una lettura connessa ai nodi irrisolti della democratizzazione che si può comprendere come tutto d’un tratto il vecchio alleato sia diventato un acerrimo nemico.

Retorica anti-Ikhwan

Numerose posizioni appartengono al filone complottistico, come le teorie di un collettivo di attivisti filo-governativi sauditi, il Gruppo Nayef Bin Khaled, che si è costruito un seguito notevole su YouTube, attraverso dei video-collage in cui accostano una serie di dichiarazioni di leader dei Fratelli Musulmani per smascherare le loro cospirazioni. In questo video, ad esempio, si mostrano i discorsi precedenti alla rivoluzione del 2011 di uno dei leader yemeniti dei Fratelli Musulmani, Abdul-Majid al-Zindani, in cui accusa Israele e Usa di istigare i popoli arabi a insorgere contro i propri governi, per poi passare alla gioia di Zindani all’indomani del rovesciamento del regime del presidente Ali Abdullah Saleh e accusarlo di doppiezza nei confronti dei governanti. Il paradosso è che il disprezzo nei confronti dei Fratelli Musulmani, in quanto presunti agenti di Washington, proviene da un collettivo lealista saudita, schierato a difesa delle istituzioni di un regime da sempre allineato al blocco Nato.

Allargando invece lo sguardo sul tumultuoso contesto regionale, persino un autore schierato con Riyadh come Abdullah Bin Bijad al-‘Otaibi scrive sul quotidiano panarabo saudita al-Sharq al-Awsat che la messa al bando dei Fratelli Musulmani in Arabia Saudita è motivata anche dalla loro capacità di sfruttare le rivendicazioni della gente per “spezzare le file (shaqq al-sufuf)”, ovvero dare vita a una nuova base di dissenso. Nel Golfo, come in altri regimi, la paura del cambiamento interno si nasconde dietro complottismi più o meno fondati (e a volte alquanto “fantasiosi”).

Nell’universo dei linciatori di piazza dei Fratelli Musulmani vi è poi chi si concentra sugli aspetti ideologici e rema controtendenza rispetto al mare di analisti che riconducono gruppi come l’autoproclamatosi “ Stato Islamico” al wahhabismo saudita: lo stesso ‘Otaibi profonde infatti i suoi sforzi in difesa della dottrina officiale dei Sa’ud sul sito di Al-Arabiya e accusa i Fratelli Musulmani di essere la prima fonte d’ispirazione dei gruppi jihadisti. L’autore sostiene infatti che il wahhabismo sia inconciliabile con i movimenti armati clandestini, in quanto condizionato dal riconoscimento della legittimità delle istituzioni. Naturalmente, a ‘Otaibi non interessa ricordare che gli Ikhwan sono stati perseguitati da diversi regimi, mentre il wahhabismo è diventato la dottrina ufficiale di una dittatura. Risultano invece interessanti i riferimenti dell’autore alla simbologia e agli strumenti di propaganda utilizzati dallo Stato Islamico, dal “sorriso del morto” alla “luce nei sepolcri”, fino agli inni islamici, che sarebbero ricollegabili alla letteratura degli Ikhwan piuttosto che a quella wahhabita.

Un aspetto innegabile della strategia utilizzata dai Fratelli per assumere il controllo delle società in cui operano, nonché uno degli assi centrali delle invettive scagliategli contro, è la natura “massonica” del movimento, capace di infiltrarsi nelle istituzioni inserendo i propri adepti in settori chiave come l’istruzione e costruire degli imperi finanziari fondati sulle donazioni dei membri. Una sorta di Comunione e Liberazione del mondo musulmano contro cui si scaglia il conduttore kuwaitiano Mohammad Mulla (Shahed TV), accusando i Fratelli di aver “occupato (ihtallu)” le istituzioni, operando anche in segreto attraverso i loro seguaci non dichiarati.

Il potere conquistato dagli Ikhwan nei ministeri dell’istruzione, al punto da condizionare la redazione dei curriculum scolastici e controllare le attività studentesche, è stato del resto un tratto comune alla storia del movimento in Kuwait, Arabia Saudita e Emirati. Scrivendo sul magazine saudita al-Majalla, Abdullah al-Rashid ricorda come l’episodio che scatenò agli inizi degli anni ’90 la prima campagna di epurazioni degli impiegati Ikhwan all’interno del ministero dell’istruzione a Dubai fu una borsa di studio negata a uno studente universitario, che non nutriva particolari simpatie per i Fratelli. In Kuwait, scrive Ali al-Kandari in una ricerca pubblicata da Al-Jazeera, il peso sociale concesso agli Ikhwan attraverso il monopolio dell’educazione era invece parte della tacita intesa stretta con la casa regnante dei Sabah, a condizione di evitare lo scontro politico. Tale alleanza ha retto dagli anni ’60 almeno fino al 2007, quando il braccio politico dei Fratelli in Kuwait (Hads) ha portato avanti con successo la sua prima campagna contro la corruzione governativa. Oggi Hads prosegue il suo boicottaggio del Parlamento, chiedendo una riduzione dei poteri dell’emiro.

Lo sfruttamento delle istituzioni, la natura segreta dell’organizzazione, l’adescamento dei giovani e l’utilizzo delle donazioni destinate alla Palestina per finanziare le proprie attività sono al centro di una breve fiction emiratina intitolata “I Fatti dell’Organizzazione dei Fratelli Musulmani negli Emirati“(Haqaiq tanzim al-Ikhwan al-muslimin fi al-Imarat): un’ “arsenale” quindi di topos etici, dal movimento che agisce nell’ombra e corrompe le future generazioni al raggiro dei pii musulmani intenzionati ad aiutare i correligionari palestinesi.

Uno spezzone del filmato viene poi dedicato al tema controverso della bay’ah, il giuramento di fedeltà islamico storicamente riservato ai governanti di una comunità sulla base di una serie di condizioni.  Gli Ikhwan la utilizzano invece per cementare la lealtà dei seguaci alla loro guida (murshid). La voce fuori campo accusa i Fratelli di spacciare per religione un affare politico, tuttavia, il messaggio trasmesso da un dotto islamico per rimettere sulla retta via il giovane protagonista traviato dagli Ikhwan è intrinsecamente politico: la bay’ah rimane una prerogativa del Profeta e dei leader di Stato, ma non di gruppi come gli Ikhwan.

Se si escludono gli arresti avvenuti nel 2013 negli Emirati, la propaganda anti-Fratelli dispone di ben pochi esempi di insurrezionalismo interni al Golfo imputabili all’organizzazione. Di fatti, le invettive di emittenti saudite come Al-Arabiya si concentrano sugli eventi egiziani, accusando il movimento di essere responsabile anche dell’assassinio di Sadat da parte del Jihad Islamico (1981), un collettivo che aveva preso le distanze dalle posizioni moderate del leader locale dei Fratelli Hassan al-Hudaybi (1951-73), pur essendo influenzato dall’ala oltranzista degli Ikhwan vicina alle idee di Sayyid Qutb tra gli anni ’50 e i ’60.

Già nel 2004, quando l’allora ministro degli interni saudita Nayef Bin Abdul-Aziz aveva imputato ai Fratelli Musulmani la diffusione dell’estremismo responsabile degli attacchi dell’11 settembre, lo scrittore statunitense Graham Fowler aveva sottolineato in un articolo pubblicato da Al-Jazeera come il movimento islamico ripudiasse in realtà la violenza nella maggioranza dei Paesi in cui era attivo (con l’eccezione del Sudan e della Palestina). Fowler aveva quindi ricollegato le dichiarazioni del ministro saudita alla necessità di svincolare Riyadh da una posizione difficile, bersaglio delle critiche statunitensi post-11 settembre e dell’ostilità dei militanti islamici, più che a una reale minaccia posta dagli Ikhwan. Allo stesso modo, una lettura odierna della guerra mediatica saudita contro il movimento non può prescindere dal contesto regionale che vede Riyadh adirata dall’avvicinamento iraniano-statunitense e imputata di essere la fonte ideologica – se non finanziaria- a cui si abbevera lo Stato Islamico.

Il fronte dei recalcitranti nella guerra ai Fratelli Musulmani: Kuwait e … Arabia Saudita?

Gli Emirati sembrano i più determinati a reprimere gli Ikhwan, anche a livello mediatico, dove sono pressoché inesistenti le prospettive critiche sulle posizioni governative.
Tuttavia, lo sradicamento dei Fratelli dagli Emirati passa da una potenziale destabilizzazione del Golfo, per via dei rapporti stretti esistenti tra il movimento e alcuni regimi: di fatti, il capo della polizia di Dubai Dahi Khalfan, già al centro di una polemica con il leader spirituale degli Ikhwan Yusuf al-Qaradawi, ha più volte accusato il Kuwait di essere il principale finanziatore delle attività del gruppo negli Emirati. Ed è proprio dalle emittenti del Kuwait che provengono le apologie più frequenti del movimento islamico, come quella pronunciata sugli schermi di al-Adala TV dall’ex-parlamentare kuwaitiano Saleh al-Mulla, il quale sottolinea la contraddizione del supporto espresso dal Bahrain per la classificazione degli Ikhwan come gruppo terroristico, dal momento che il suo ministro degli esteri li aveva appena definiti “una componente importante del tessuto sociale bahrainita, che agisce secondo la legge.”

Non è un caso che, dei tre Paesi, quello dove i media offrono una maggiore pluralità di opinioni al riguardo sia il Kuwait, che è stato toccato dall’ondata di proteste che ha attraversato la regione nel 2011, e dove è comunque difficile si giunga a uno scontro tra monarchia e Fratelli Musulmani, per via dei buoni rapporti costruitisi in decenni di solidarietà in funzione anti-nazionalista e anti-comunista, che ricordano la situazione degli Ikhwan in Giordania. Anche nel contesto attuale, in cui i Fratelli si trovano schierati con l’opposizione, è più probabile che ad avere successo sia l’ala del movimento più pronta al compromesso, ovvero quella storicamente legata al palazzo da interessi economici. Gli sviluppi più recenti hanno di fatti visto l’inizio di una scissione tra partito Hads e movimento dei Fratelli, poiché l’impero finanziario di quest’ultimo iniziava a risentire dell’ostilità governativa.

Persino in Arabia Saudita c’è chi ritiene controproducenti gli effetti di una guerra aperta ai Fratelli Musulmani, come è emerso da un’intervista rilasciata ultimamente a Rotana TV dall’ex-parlamentare saudita Ahmad al-Tuwaijri, che ha definito “un insulto all’Arabia Saudita” la classificazione terroristica di un movimento legittimo esteso dal Marocco all’Indonesia. Gli Ikhwan, prosegue Tuwaijri, dovrebbero essere considerati “estensione strategica” degli interessi della monarchia, anche alla luce delle relazioni storiche con i Sa’ud, i quali iniziarono ad accogliere i membri egiziani del movimento ai tempi delle persecuzioni di Jamal Abdul-Nasser negli anni ’60.
La riconciliazione tra i custodi della Mecca e quelli che sono stati a lungo i loro alleati in politica estera, in funzione anti-nasserista, anti-baathista e anti-comunista, sembrerebbe del resto l’opzione più prudente per fronteggiare un contesto regionale ricco di insidie, tra cui spicca l’ascesa al potere degli Houthi sciiti in Yemen. Nonostante l’opposizione degli Emirati, il riavvicinamento tra Riyadh e Doha e alcune dichiarazioni più aperte al dialogo con i Fratelli Musulmani rilasciate in passato dal nuovo sovrano saudita Salman Abdul-‘Aziz sembrano inserirsi nella stessa direzione.

Tuttavia, come sottolinea l’opinionista saudita Noura Mash’al sul sito Noon Post, gli Ikhwan sono destinati a rimanere un rivale politico e ideologico ingombrante per l’egemonia saudita. Tra le petromonarchie, l’ago della bilancia continua così a essere il regno wahhabita, in quanto maggiore potenza politico-mediatica, chiamata ancora una volta a ritrovare un difficile equilibrio tra le forme d’Islam politico supportate all’estero (i Fratelli Musulmani ieri, i salafiti oggi) e le loro ripercussioni interne, un equilibrio già spezzatosi nel 2011 con l’ascesa al potere di numerosi gruppi vicini ai Fratelli e nel 2014 con l’emersione dello Stato Islamico.

Il nodo irrisolto ben più profondo resta però il processo di democratizzazione, che ha toccato solo marginalmente i Paesi del Consiglio della Cooperazione del Golfo nel 2011 e di cui le tensioni con gli Ikhwan saranno soltanto una delle molteplici manifestazioni future.