Da #30jun a #not_a_coup. Le piazze egiziane raccontate sui social network

09/07/2013
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Non è stato un caso che Twitter abbia deciso di avviare la fase di test per la traduzione dei post in arabo, il 3 luglio – nei giorni più caldi di una nuova ondata insurrezionale egiziana. Una rivoluzione di piazze reali e virtuali, nata con la raccolta firme promossa dalla campagna Tamarrod (ribellione) sulla rete come per le strade delle città egiziane. L’obiettivo delle richieste dei mutamarridin era chiaro: il presidente Mohammed Morsi, democraticamente eletto da appena un anno, doveva dimettersi e l’Egitto doveva ritornare alle urna in fretta.

Forse vale ancora quanto ha sottolineato Marc Lynch in The Arab Uprising, riferendosi a #Jan25 e alla portata dei social network a quella rivoluzione: nelle proteste del 2011 il ruolo di Twitter e Facebook fu fin troppo enfatizzato, rischiando di far cadere in secondo piano i malumori di un popolo che non sopportava più l’oppressione della dittatura. Il pericolo di passare per entusiasti della rete continua ad esistere, ma oggi più di allora, i social network sembrano essere stati centrali, nel trasformare le manifestazioni del 30 giugno in quella che forse passerà alla storia come la più grande mobilitazione della storia egiziana. Il fatto che i due poli politici avversari abbiamo scelto di servirsi di Facebook e Twitter per veicolare i loro messaggi sembra essere una conferma. 

 

Golpe o non golpe

Le immagini delle strade e delle piazze festanti degli anti-Mursi del 30 giugno si sono alternate a quelle, relativamente poche, dei feriti e dei morti. Così i social network hanno saputo rendere il complicarsi della situazione egiziana: facendosi carico di una cronaca spesso poco bilanciata, e giocando sullo straniamento e sull’ironia per accentuarne le risa, le lacrime o il sangue.

 

 

Ad esempio, dalla parte dei mutamarridin, i “ribelli” carioti forti dei supposti 22 milioni di firme raccolte per sostenere la richiesta di nuove elezioni, la comunicazione è passata soprattutto per simboli scherzosi, come i cartellini rossi che chiedevano l’espulsione del raìs o il sito morsitimer.com, il metro virtuale che da un anno misura la performance della presidenza e che tornato al centro della rete al momento dell’annuncio degli ultimatum dati al presidente Mursi dagli stessi ribelli e dal capo dell’esercito Abdel Fattah El-Sissi.

 

Un video prende in giro il Presidente Morsi, durante il suo discorso del 2 luglio: “Quante volte dice alshariya (legittimità)?”

 

Successivamente però, l’ironia ha lasciato sempre più spazio all’indignazione quando non alla rabbia vera e propria. Ai cartellini rossi si sono sostituite ora le lacrime e le scarpe alzate al cielo dai sostenitori di Mursi, idealmente scagliate contro El-Sissi durante il discorso con il quale destituiva il presidente eletto e sospendeva la Costituzione.

 

Ora i simboli delle manifestazioni riecheggiate su Twitter grazie all’hashtag #not_a_coup, nate per rivendicare la natura democratica alla base degli eventi, contro tutti coloro che hanno bollato la “rivoluzione” come un “colpo di stato” – media statunitensi in primis, come dimostrano le immagini dei cartelli contro la Cnn.

 

 

La rivoluzione sarà twittata. Il governo militare forse no.

Non è certo una novità che i social media ricoprano un ruolo centrale nel racconto di eventi di piazza, specie nei paesi giornalisticamente meno coperti dai media occidentali. Ma i quattro giorni che hanno portato alla defenestrazione del presidente Mursi, sono stati rivoluzionari dal punto di vista della comunicazione istituzionale. Sia dalla parte della presidenza (@EgyPresidency, su Twitter e Facebook, anche in inglese) che da quella dell’esercito (su Facebook, con l’account del proprio portavoce), i comunicati ufficiali sono stati lanciati sui social network, rivolgendosi direttamente ai propri pubblici e bypassando completamente la tradizionale mediazione giornalistica – al punto che l’Associated Press, dall’alto del suo primato mondiale per autorevolezza e dimensioni tra le agenzie di informazione, si è ritrovata di fatto a dover ritwittare le parole di Mursi:

 

Una disintermediazione utile non solo ad evitare il maggior numero possibile di filtri tra mittente e destinatario. Se infatti da una parte l’immediatezza della comunicazione espone a pubbliche critiche e derisioni, dall’altra fidelizza ancora di più i sostenitori della causa. Dentro e fuori dai confini – scopo evidenziato dalla scelta di comunicare anche in lingua inglese per comunicare senza intermediari e al mondo intero la propria versione.

 

Si tratta comunque di una novità che non ha sostituito le forme di propaganda e comunicazione politica più tradizionali. L’annuncio più atteso di questi quattro giorni è stato affidato alle televisioni che hanno trasmesso l’intervento con il quale il ministro della difesa, El-Sissi ha comunicato la destituzione di Mursi. E sempre sulle televisioni si è concentrata una delle prime misure prese dal governo militare che ha deciso di chiudere quattro emittenti che hanno sostenuto gli islamisti. Al-Jazeera Mubashir Misr, che aveva in palinsesto la trasmissione di una manifestazione pro-Morsi; il canale dei Fratelli Musulmani, Misr25 – i cui managers sono stati arrestati, secondo quanto riportato dall’agenzia MENA; e due televisioni salafite Al-Hafiz e Al-Nas.

 

 

La Rete contro le violenze sessuali in Piazza Tahrir

Qualcuno l’ha addirittura chiamato “il triangolo delle Bermuda”: è l’area di piazza Tahrir tra Hardee’s and Pizza Hut dove, durante le manifestazioni nella principale piazza cariota le donne spesso spariscono, portate via dagli stupratori che approfittano del caos per assalirle. Per combattere questo fenomeno, tristemente diffuso al punto da aver attratto l’attenzione dell’Human Rights Watch già da tempo, sui social network sono nati degli account specifici per informare, monitorare e prevenire le violenze in piazza.

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Uno di questi è @OPAntiSH – Operation Anti Sexual Harressment – che combatte le violenze sessuali prima in piazza grazie ai suoi volontari, e poi su Twitter e su Facebook dove si serve di hashtag come #EndSH o #EgyWomen per monitorare la situazione e denunciare i diversi tipi di aggressione.

 

Un account simile è quello delle “Guardie del corpo di Piazza Tahrir” (@TahrirBodyguard) che sui social network condividono le foto dei loro cordoni creati attorno alle donne in piazza Tahrir per difenderle dalle aggressioni e dalle violenze.

 

Ma la causa delle donne è stata sposata anche dagli utenti che in più casi hanno twittato il loro sostegno ai volontari di @OPAntiAH e @TahrirBodyguard, anche condividendo prodotti creativi creati ad hoc – o presi in prestito dai murales, dalle strade, dalle vignette.

 

 

Conclusioni

Ancor più nel caso di simili rivoluzioni e scontri di piazze, il racconto attraverso i social network si è confermato una tentazione talmente forte da diventare una necessità. Chiunque si sia trovato in piazza, stringendo uno smarphone tra le mani, non ha potuto (e non può) resistere alla voglia di condividere quel momento, la gioia o la rabbia – a seconda della situazione specifica – di quella che comunque era la sua piazza, quella di cui condivideva ideologia e punti di vista, quella che avrebbe voluto vedere vittoriosa. A questo proposito, vale la pena dare uno sguardo allo studio pubblicato sul sito irevolution.net sulla progressiva polarizzazione politica dei tweet egiziani, nell’arco di tempo che andava dal 29 giugno (la vigilia della maxi manifestazione dei mutamarridin) al 5 luglio (due giorni dopo la destituzione del presidente Mursi). 

Una tentazione che si è declinata nella necessità di collaborare per contrastare le aggressioni sessuali alle donne di piazza Tahrir. E alla quale non hanno voluto – potuto ormai – sottrarsi neppure i soggetti politici ufficiali che hanno colto al volo l’occasione di far rimbalzare in rete le loro versioni contrastanti, ognuno nella speranza di vedere aumentare, follower dopo follower, i sostenitori della rivoluzione o i delatori del golpe.